Dahomey: il ritorno dei tesori del Benin nel documentario di Mati Diop
Con Dahomey, disponibile su Mubi, la regista Mati Diop dà voce a 26 tesori dell’odierno Benin che il governo francese ha deciso di restituire. Non uso termini a caso, parlo di dare voce proprio perché i 26 tesori parlano e diventano il traino di tutto il documentario. Tutto parte dall’inizio, dall’imballaggio dei manufatti dell’antico regno Dahomey fino ad arrivare alla loro diposizione nel Palais de la Marina. In questa prima fase tutto è molto lento e flemmatico, come lo deve essere la delicata fase di preparazione allo spostamento di inestimabili opere d’arte. Attraverso la voce dei 26 tesori stessi, che si esprimono in lingua fon, l’attesa per capire come verrà recepito questo ritorno in patria si amplifica. Lo stacco diventa netto, Mati Diop sposta le riprese in Benin e si concentra sull’accoglienza festante delle persone in strada, dele persone eminenti e poi dei giovani.
Come per Nous, Étudiants!, anche in Dahomey appare chiara una cosa: in tanti paesi africani inizia ad essere centrale l’idea che i giovani universitari stanno avendo della società attuale e di come sono in grado di rielaborare il passato. Cosa è significato il colonialismo e quanto è andato perduto della cultura originale del Dahomey? Quanto anche solo l’imposizione di una lingua non locale, il francese, ha contribuito a violare l’essenza stessa degli attuali beninesi? Uno dei momenti più forti del documentario è dunque proprio una sorta di tavola rotonda con discussione degli studenti dell’Università Abomey-Calavi in cui tutte queste domande vengono fatte e ognuno esprime la propria idea su quanto sta avvenendo nel paese alla luce della restituzione di queste prime 26 opere. Si tratta però solo di un primo passo, perché si stima che siamo circa 7000 le opere d’arte locali trafugate durante il colonialismo che, ancora oggi, si trovino all’estero. Recuperarle significa, riprendere consapevolezza del proprio passato e utilizzarlo per fare i conti con il presente. Cultura materiale e immateriale si scontrano, si influenzano e cercano di dare vita a qualcosa di nuovo, di più consapevole. Ma sono proprio i giovani a dover prendere in mano questa eredità, a doverci fare i conti per costruire un futuro e un’identità per il loro paese.
Mata Diop riesce con una regia asciutta, estremamente funzionale ma anche molto curata, a usare una vicenda di cronaca per raccontare i processi postcoloniali di un paese. Le opere d’arte restituite diventano quasi un espediente, una miccia per dare vita a un dibattito ricco e sfaccettato. Quanto accaduto al regno di Dahomey non è un caso isolato e molti abitanti di ex colonie non hanno mai potuto vedere né vedranno le loro produzioni artistiche locali dal vivo. Questo, per Mata Diop che si esprimere attraverso la voce dei 26, ha inevitabilmente lasciato una ferita e questa merita di essere sanata. Dahomey in parte è anche questo, anche se più di una cura sembra un palliativo, un punto di partenza verso qualcosa di più grande che scopriremo solo negli anni a venire.