Happy Face: il lato umano del true crime

Il rapporto padre-figlia non è sempre facile, di certo non lo è per Melissa (Annaleigh Ashford), anche se il suo è un caso atipico. È difatti la figlia di un serial killer, il cosiddetto Happy Face Killer, accusato e poi imprigionato per avere ucciso almeno otto donne mentre lavorava come camionista. 

Dopo aver scoperto il tutto quando era ancora teenager, Melissa ha deciso di nascondere a tutti il suo legame di sangue con il padre Keith (Dennis Quaid), cambiando cognome da Jesperson in un più semplice e anonimo Moore. Quando l’uomo cerca di farsi di nuovo strada nella vita della figlia, in occasione del compleanno della nipote Hazel (Khiyla Anne), Melissa è costretta ad ascoltarlo, soprattutto quando capisce che da una possibile confessione di Keith potrebbe dipendere la vita di un uomo condannato a morte.

Ispirata all’omonimo podcast e al libro Shattered Silence firmati entrambi dalla vera Melissa Moore, Happy Face arriva su Paramount + in un momento in cui la serialità contemporanea sembra ormai satura di true crime. Dovunque ci giriamo, su qualsiasi piattaforma approdiamo, la morte è protagonista dell’intrattenimento con il pubblico che in un certo senso gioca a fare l’investigatore. In questo contesto Happy Face ha il vantaggio di riconoscere e problematizzare la sua posizione: è il figlio prediletto del true crime, ma anche una sua variante etica, provenendo dal racconto in prima persona della sua stessa protagonista. Per una volta non ci troviamo davanti a un mero sfruttamento del dolore, ma a una sua efficace indagine.

Svelando la sua vera identità davanti ai microfoni e alle telecamere del The Dr. Greg Show, Melissa si scontra con un prepotente bias nei suoi confronti: chi la circonda vede la follia omicida del padre come un tratto genetico che lei deve aver per forza ereditato, non è la coraggiosa figlia pronta a sfidare gli scagnozzi che Happy Face Killer ha fuori dalla prigione, ma è una complice che ha approfittato di un comodo silenzio. 

A seguire Melissa è il fantasma di un trauma mai realmente elaborato che riprende possesso della sua vita con il ritorno del padre, una presenza ingombrante che Dennis Quaid porta sullo schermo in modo talvolta caricaturale. Happy Face è la storia di un altro tipo di vittime, quelle emotive, uno dei tanti danni collaterali che una violenza così crudele apporta.

Al contrario di Good American Family, uscita in contemporanea su Disney+, che punta su un approccio più sensazionalistico vicino al camp per quanto possibile, Happy Face dimostra un’indecisione nel tono, che viaggia da un dramma dignitoso a una melodrammatica soap opera. È un esperimento curioso nel suo tentativo di cambiare l’ordine degli addendi nel genere true crime, ma che fatica nel trovare una forma univoca con due attori protagonisti che sembrano appartenere a due storie diverse.

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