Kokomo City: riconoscimento e accettazione

 
 

Nella difficile e non sempre definita situazione politica e sociale degli Stati Uniti d’America è necessario fare chiarezza su cosa significhi essere ai margini a livello etnico, lavorativo e di genere. Da poco è sbarcato su MUBI uno dei documentari più premiati del 2023 dal circuito festivaliero: prima al Sundance e poi alla Berlinale, Kokomo City di D. Smith si è aggiudicato premi per l’impegno nella diffusione e rappresentazione delle tematiche di genere.

Il documentario, in soli 73 minuti in bianco e nero, attraverso le testimonianze di quattro sex workers transgender di colore, racconta le difficoltà e le incongruenze del mondo statunitense di fronte alla diversità e al sesso. Daniella Carter, Koko Da Doll, Liyah Mitchell e Dominique Silver, da New York ad Atlanta, con parole forti e dirette riscostruiscono un mosaico complesso e doloroso che immortala il loro essere coraggiose e orgogliose in un mondo che non perde occasione per sputar loro in faccia rancore e discriminazione. In un vortice di immagini che sempre esaltano i corpi e le fattezze seducenti delle trans, prendono il via le testimonianze di persone che hanno scelto la strada della prostituzione per obbligo, per poter pagare l’affitto, perché disconosciute dalla famiglia e abbandonate in mezzo a una strada, o addirittura perché velatamente additate come fuori luogo nelle vesti di cameriere. La bellezza e la perfezione femminile a cui aspirano è quella che fa perdere la testa agli uomini che vogliono i seni prosperosi, le natiche sode e un “membro grosso” capaci di soddisfare quei desideri che non sanno ammettere e che devono rimanere segreti alle mogli che a casa li attendono. Daniella, Koko e Dominique riflettono su come i loro clienti spesso finiscano con il sentirsi in colpa, traviati da creature anormali che devono essere punite – Dominique alla fine di un rapporto, ad esempio, ha ricevuto un pugno in pieno volto, come oltraggio e punizione per la sua arte seduttiva.

Ciò che emerge dalla cruda, vera e ruvida narrazione filmata da D. Smith, è quanto le protagoniste del film siano penalizzate tanto dal colore della loro pelle, quanto dalla transizione che hanno scelto di affrontare per vedersi come sentivano di essere in realtà: la comunità black femminile pubblicamente esalta la loro  femminilità raggiunta, ma in privato scongiura che i propri mariti o figli non facciano la stessa  scelta o non passino tempo ad intrattenersi con loro. Tra  la variegata clientela delle trans intervistate ci sono anche personaggi noti del mondo della musica, uomini di potere che le usano senza alcun rispetto, mentre pochissime sono le eccezioni di clienti che si affezionano a loro. Viene candidamente ammesso da un uomo intervistato l’innamoramento per una sex worker transgender, soffocato dalle conseguenze che una relazione alla luce del sole avrebbe implicato.

Sono martellanti e continui gli spunti di riflessione e i vasi scoperchiati dalle ragazze, imprenditrici del loro corpo e per nulla ingenue: ciò che chiedono non è una vita differente, quanto piuttosto una normalizzazione del loro ruolo nella società statunitense. Il supporto  femminile, il sostegno degli attivisti che deve andare ben oltre le parate con i cartelloni del Black lives matter, dunque una svolta concreta che conferisca ulteriore dignità sociale a quella che ogni giorno, uscendo di casa, le ragazze ostentano, come punto di forza e come armatura che le protegga dalle discriminazioni.

Appartamenti vissuti fino al limite, strade frequentate di quartieri non sempre raccomandabili, night club gremiti di pubblico, sono gli sfondi affascinanti e repulsivi delle regine della “street life“ – brano dei titoli di testa –, la rappresentazione di un mondo da mostrare ed esplorare per entrare nel vivo di una realtà che si crede stereotipata dal cinema di finzione. Si potrebbe considerare, sboccato, volgare, duro Kokomo City, e volutamente lo è, proprio per dare inizio a quel processo di normalizzazione a cui ambiscono le protagoniste che non vengono censurate o addomesticate, lasciate libere di muoversi, esprimersi, farsi conoscere senza filtri. La forza del documentario è nella totale assenza di strumentalizzazione del girato e del confessato: i corpi e l’autenticità della sex workers sono il manifesto delle richieste e dell’attenzione, oltre che dell’impegno per l’accettazione di chi formalmente la legge include ma che, al contrario, l’ipocrisia umana rifiuta.

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