Le farò da padre: tra provocazione e riflessione

 
 

Il cinema italiano sapeva osare e voleva farlo. E’ un dato di fatto e si constata ogni volta che si rivede un film realizzato dai registi che hanno costellato il panorama cinematografico dell’epoca d’oro: autori di punta, o altri, a lungo considerati minori, condividono il desiderio di provocare, confondere e creare dibattito. Siamo negli anni Settanta, anni in cui il cinema militante la fa da padrone, Alberto Lattuada realizza un’opera controversa che pone l’accento sulla disabilità, la malattia mentale, sulla corruzione dell’uomo e, soprattutto, sull’erotismo. Si tratta di Le farò da padre…, film lungamente sparito dai radar cinefili e da poco approdato, per comune e sommo gaudio, su MUBI.

Saverio Mazzacolli (Gigi Proietti) è un avvocato e uno spregiudicato speculatore edilizio alle prese con la realizzazione di un lussuoso villaggio turistico nel cuore del Salento. Gli farebbero comodo le terre della Contessa Ramazza Spina (Irene Papas), restia a concludere l’affare. Pur di raggiungere il suo scopo, Saverio progetta il finto rapimento di Clotilde (Therese Ann Savoy), la bellissima figlia della contessa, una sedicenne affetta da un grave ritardo mentale che la porta a comportarsi come un’infante. La convivenza con Clotilde porterà Saverio sulla via del cambiamento. Ed è proprio il cambiamento il perno su cui ruota la pellicola di Lattuada; il prima e il dopo Clotilde.

La giovane, inconsapevole femme fatale – topos di Lattuada che lanciò Catherine Spaak e Jaqueline Sessard proprio in questa veste – incarna innocenza e sensualità, ed è mostrata tanto come oggetto sessuale alla ricerca del piacere, quanto come creatura indifesa da salvare. Clotilde placa la sua irrequietezza solo se e quando stimolata sessualmente, quotidiano compito della balia, e di ciò se ne approfitta il rapitore, almeno finchè non si innamora di lei. Così Lattuada, senza girarci troppo attorno, provoca lo spettatore portandolo a domandarsi cosa sia abuso, cosa desiderio, cosa compassione o ancora accettazione.

La messa in scena è direttamente proporzionale al bildungsroman di Saverio: quando l’arrivista è brutale, misogino e maschilista, l’atto sessuale e il rapporto con il femminile (l’uomo intrattiene una relazione con una domestica) è brutale, secco, meccanico, violento ed il regista lo riproduce come tale, ma quando il sentimento e la cura – l’ironica e millantata paternità del titolo –prevalgono, la grevità del gesto si trasforma in tenerezza, in gioco, in complicità. Clotilde, creatura ultraterrena, aliena innocente, in un mondo di compromessi e giochi di potere, ristabilisce l’equilibrio emotivo dell’essere umano: la macchina da presa la segue avidamente, si sofferma sul suo corpo per poi repentinamente discostarsene e lasciarla muovere, con il suo passo incerto, nell’ambiente che la circonda. Vittima di una doppia prigione, lotta per il lieto fine che le viene concesso senza troppo buonismo.

Le farò da padre… oscilla e scavalca i generi, mischiandoli a tal punto da renderli indistinguibili: un film sociale, romantico, erotico, drammatico con una sottotraccia da giallo farsesco in cui i personaggi, Saverio e i suoi compari di malefatte, si improvvisano i temibili delinquenti che non sanno essere fino in fondo. L’aspetto multiforme dell’opera mitiga, senza annullare mordacità e affilatezza di riflessione, la possibilità di dare scandalo in un panorama di cinema d’autore in perpetua evoluzione. La grande abilità attoriale di Proietti esalta l’ambiguità del personaggio, allontanandolo dalla caricatura, fornendo così un esempio fuori dagli stereotipi, ben lontano dall’ostentato politically correct del nostro presente. Restano enigmi e questioni filosofiche aperte come la frase smozzicata pronunciata da Saverio poco prima di cedere alle pressioni sessuali di Clotilde: “Tu abusi di me.” Non vi è umorismo, solo la più potente provocazione di un’opera scomoda.

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