Orion e il buio: un magico equilibrio più unico che raro
È tutta una questione di equilibrio. E, appunto per questo motivo, diventa il risultato più difficile da perseguire. Orion e il buio si fonda su tre elementi indipendenti: il regista Sean Charmatz (qui all’esordio nel lungometraggio dopo una lunga gavetta in altre produzioni animate targate Nickelodeon e DreamWorks); lo sceneggiatore Charlie Kaufman (la geniale penna dietro i film più riusciti e sorprendenti degli ultimi anni, come quelli diretti da Spike Jonze e Michel Gondry); la DreamWorks Animation, casa di produzione con una linea editoriale ben precisa e troppo spesso sottovalutata.
Unire queste tre identità, queste tre creatività e questi tre differenti sguardi cinematografici, è lo scopo basilare di un film che prova a fare sintesi anche da un punto di vista narrativo (le disavventure del protagonista Orion, il ragazzo al centro della vicenda, sono tese proprio in un viaggio di formazione dal sapore classico che lo porterà a trovare una nuova dimensione, più consapevole, più matura), ma diventa soprattutto l’occasione per certificare la forza fondante di un triangolo solido e concreto, capace di sostenere sulle proprie spalle un progetto tanto ambizioso quanto poliedrico.
Tutti contribuiscono con le proprie caratteristiche, con le proprie qualità: Charmatz si mette al servizio del racconto, adottando una regia camaleontica capace di spaziare all’interno di diverse tecniche e in grado di restituire il mood emotivamente altalenante e complesso del suo protagonista; Kaufman entra in punta di piedi all’interno di un filone (l’animazione mainstream per famiglie) che non è solito abitare, ma dal quale (circa alla metà del film), prende poco alla volta le distanze per inabissare il pubblico in una narrazione a scatole cinesi decisamente più stratificata e adulta; la DreamWorks si affida al suo team creativo lasciando tutta la carta bianca possibile ma delineando con precisione quelle che devono essere le coordinate da rispettare (questo il motivo per cui ci troviamo di fronte all’ennesimo antieroe della loro filmografia, ad affrontare tematiche come emarginazione, bullismo, e a elogiare la bellezza del perdente ricordando ancora una volta la strafottenza e la pericolosità del conclamato eroe di turno).
Ognuno tira acqua al proprio mulino ma, in maniera decisamente sorprendente, tutte le componenti riescono a collaborare all’unisono amalgamandosi alla perfezione, senza prevaricare l’una sull’altra e trovando appunto un magico equilibrio più unico che raro. Proprio come il titolo del film: un ossimoro che associa l’oscurità della notte al nome di una delle costellazioni più riconoscibili della volta celeste (facilmente individuabile da ogni angolo del nostro pianeta per via della sua collocazione rispetto all’asse terrestre). Senza il buio, non potrebbe vedersi Orione. Così come senza Orione, non ci troveremmo nell’oscurità.
Ci vuole coraggio a ideare, produrre e dirigere un film del genere. Si tratta di uno dei tasselli più riusciti di casa DreamWorks, che continua a convincere quando si affaccia verso nuovi orizzonti e nuove sfide, al contrario di come opera quando prova a proporre minestre riscaldate.