Pandora: echi classici e decadenti passioni
In un piccolo villaggio di mare nella Spagna degli anni Trenta, un uomo si uccide davanti a Pandora, la donna che ama. Lei non gli dà il minimo peso, ci è abituata: ogni uomo attorno a lei è disposto a sacrificarle ciò che ha di più caro. Nella sua superbia Pandora acconsente a sposare un pilota, ma a ridosso delle nozze si innamora di un misterioso olandese da poco attraccato. Si tratta del leggendario fantasma noto come olandese volante, costretto a solcare eternamente i mari a bordo di una nave fantasma finché non avrà trovato una persona disposta a uccidersi per il suo amore.
Questa metafisica storia d’amore, disponibile su MUBI, è una buona occasione per approcciare la ridotta filmografia di Albert Lewin, regista di soli sei film. Le opere dello statunitense sono pregne di un romantico decadentismo, mutuato dalla letteratura europea di fine ottocento (La luna e sei soldi, Il ritratto di Dorian Gray, Il disonesto), su cui si innesta la fascinazione per ambientazioni e culture esotiche (Saadia, L’idolo vivente). Anche questo Pandora è un film colto, denso di riferimenti storici, folkloristici e mitologici, il cui intreccio riprende fedelmente la struttura a flashbak incastrati di Frankenstein, a proposito di riferimenti letterari ottocenteschi. Il nome dell’immaginaria città spagnola Esperanza inoltre, è proprio ciò che rimane dopo che la Pandora del mito greco riversa il male nel mondo.
La rivisitazione della leggenda dell’olandese volante dà modo a Lewin di costruire, attorno a una storia sul tema del sacrificio, un’ambientazione fiabesca da realismo magico in cui coesistono irrazionalmente statuaria ellenica, pittura metafisica e meccanica steampunk ante litteram. La regia ariosa valorizza appunto la scenografia, a cui ha collaborato il surrealista Man Ray, e il forte senso della composizione di Jack Cardiff, direttore della fotografia che peraltro è possibile apprezzare anche su Netflix in Meravigliosa Conquista. Su questo sfondo modernista e classicheggiante, con musicisti jazz sdraiati su sculture greche, si intreccia la relazione fra il disincantato olandese volante, interpretato da James Mason, e l’arrogante femme fatale Ava Gardner.
È soprattutto quest’ultimo ruolo a sembrare calzato su misura per l’interprete, considerando che la turbolenta vita sentimentale e privata della Gardner le valse la nomea di divoratrice di uomini. Nella costruzione di questo personaggio in particolare si nota la finezza della scrittura di Lewin. Il tema della femme fatale è forse il più abusato dei clichè del cinema classico, un ruolo esasperatamente stereotipato e più eloquente riguardo le ansie maschili che sulle motivazioni del personaggio stesso. La Pandora di Lewin non è una manipolatrice che mira a guadagnare qualcosa con l’inganno, né tantomeno una poveretta inacidita dalla lotta per la sopravvivenza in un mondo inospitale. Lei è semplicemente una persona antipatica, menefreghista e crudelmente sincera, che non intende cambiare atteggiamento né sfruttare il suo ascendente per trarne vantaggio – al contrario, in più occasioni cerca di dissuadere i suoi spasimanti dal compiere pazzie. Sono piuttosto gli uomini attorno a lei, annebbiati da fantasie machiste e dall’egotismo che ne consegue, a sottomettersi a quell’oscuro oggetto del desiderio che l’inarrivabile Pandora rappresenta.
Fa quasi tenerezza vederli fieramente alle prese con attività ipervirili, possibilmente fatali, mentre lei si strugge segretamente per un mite fantasma vecchio di tre secoli. Ironia della sceneggiatura, è proprio perché lui inizialmente non la degna di alcuna attenzione che l’arroganza di Pandora la pone nella stessa condizione dei suoi spasimanti: quando cioè irrompe sulla sua imbarcazione e rovina un suo quadro per stizza, lasciando l’olandese del tutto indifferente. Più volte nel film viene detto «L’amore ha una misura: quello a cui si è pronti a rinunciare», ma vi si potrebbe aggiungere un malinconico corollario, stravolgendo una celebre massima di Osho: in amore vince chi meno ama.