Copenhagen Cowboy

 

Tra colori al neon e suoni stroboscopici tanto quanto le luci, l’enigmatica Miu si muove come una contemporanea Nikita tra le strade di una Copenaghen in fiamme. Il danese Nicolas Winding Refn ritorna al prodotto seriale a distanza di quattro anni da Too Old to Die Young, trasponendo, in questa nuova opera, gli aspetti contenutistici che hanno caratterizzato la sua cinematografia dagli albori a oggi; in Copenhagen Cowboy (Netflix) riscopriamo la criminalità di Pusher, il desiderio di vendetta di Fear X e quello di protezione di Drive, la violenza cruda di Solo Dio Perdona e l’essenza soprannaturale del suo ultimo lavoro per il grande schermo: The Neon Demon.

Copenhagen Cowboy si costituisce di sei episodi da cinquanta minuti ciascuno, sviluppando multipli e irrisolti archi narrativi, tra guerre fra bande, allevamenti di maiali e figure aliene dalla mentalità fallocentrica. Miu (Angela Bundalovic) si trova coinvolta in una lotta fra bene e male, ma lo spettatore non deve farsi ingannare da una possibile lettura manichea delle vicende – non ci sono angeli, demoni o moralismi; i personaggi di Winding Refn ricalcano contemporaneamente il meglio e il peggio della natura umana, il buono e il cattivo della società (soprattutto il cattivo), lasciando a chi osserva la possibilità di scegliere da che parte schierarsi.

Nel dispiegarsi della storia, un ruolo centrale è sicuramente giocato dai vari personaggi femminili che affiancano la protagonista. In Copenhagen Cowboy, la donna appare spesso come vittima degli eventi, ma figure come Madre Hulda (Li li Zhang) ci ricordano che la forza identitaria può non essere smantellata nonostante anni di prevaricazione e soprusi; non sorprende, quindi, che le armi segrete di cui entrambe le fazioni in lotta dispongono siano incarnate da due creature verosimilmente umane e di genere femminile, ostaggi del destino in quanto controllate avidamente dai due schieramenti, ma al contempo libere di combattere per i propri personali obiettivi.

Sarebbe comunque scorretto verso i lettori affermare che l’elemento di maggior interesse di Copenhagen Cowboy sia la trama; certo, la crudeltà e oscurità che fagocitano la capitale danese sono per ovvie ragioni le colonne portanti non solo di quest’opera, ma di tutto lo storytelling winding-refniano, ma limitarsi a trattare questa nuova serie solo per il racconto messo in scena sarebbe estremamente riduttivo. L’attrattiva principale di questa serie è chiaramente la poetica visiva che il regista ha cominciato a mettere in campo parzialmente con Drive e in modo definitivo con Solo Dio Perdona: colori freddi riscaldati dalle luci al neon, un uso spropositato del magenta e del blu, inquadrature che per la costruzione dell’immagine e la staticità dei soggetti più che appartenere a un film sembrano scatti sottratti a una qualche rivista di moda… non a caso, Winding Refn ha appena diretto il cortometraggio Touch of Crude utilizzato per presentare la collezione primavera-estate 2023 di Prada.

Questo nuovo prodotto Netflix è una chicca per i “feticisti” dell’immagine e immaginario di questo regista e, pensando alla piattaforma su cui è stata distribuita, un’ulteriore dimostrazione che l’autorialità può sconfinare al di là della sala e andare oltre il classico lungometraggio.

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