Fallout: la fine del mondo diventa franchise

 
 

La saga videoludica di Fallout ha inizio nel 1997 con il primo videogioco sviluppato da Interplay Entertainment e assume la configurazione di franchise con lo sviluppo dei primi spin-off nei primi anni 2000. Nel 2004 i diritti vengono acquisiti da Bethesda Softworks, che produce altri capitoli della saga principale insieme ad altri spin-off. Oggi il brand è parte della conglomerata Microsoft, che nel 2020 ha acquisito Bethesda tramite Xbox Game Studios. La complessa evoluzione industriale di Fallout riflette la complessità del franchise, ad oggi composto da quattro capitoli principali, quattro spin-off, altri prodotti collaterali, tra cui alcuni giochi da tavolo, e, da aprile 2024, un adattamento televisivo.

Come affermato in più occasioni dalla Bethesda e dagli autori della serie, Fallout (Amazon Prime Video, 2024) è canonica all’interno del franchise ed è un’effettiva espansione narrativa che si colloca cronologicamente dopo Fallout: New Vegas (2010). Ideata da Geneva Robertson-Dworet e Graham Wagner e prodotta da Amazon MGM Studios, Bethesda e Kilter Films, la serie in otto episodi riprende l’estetica e l’ambientazione del videogioco, quella che da numerosi studiosi viene definita “retrofuturismo”, vale a dire una contestualizzazione narrativa in un futuro tecnologicamente più arretrato di quello che ci immagineremmo oggi, sulla scia della fantascienza della prima metà del Novecento. Queste rappresentazioni di frequente guardano con scetticismo a questo possibile futuro, inserendovi influenze distopiche e catastrofiche.

Il franchise di Fallout è ambientato in un universo narrativo che è allo stesso tempo una realtà alternativa (alcuni progressi tecnologici e storici non sono mai avvenuti) e un ipotetico futuro. Le vicende si svolgono in un futuro che a livello estetico richiama gli anni Cinquanta, periodo che, se da un lato è segnato da una profonda incertezza ideologica in Occidente, dall’altra vede lo scenario mondiale dominato dall’influenza statunitense. Nelle varie puntate della serie, così come nei capitoli del videogioco, è presente un immaginario nostalgico molto forte, che, come sottolinea Kathleen McClancy, è coerente con una tendenza sviluppatasi negli Stati Uniti in seguito al clima di tensione del post-11 settembre, quella, per l’appunto, di raccontare nuovamente (e quindi di riabbracciare) gli anni Cinquanta americani, anni in cui il benessere, la cultura e la way of life degli Stati Uniti erano segno di stabilità e influenza internazionale. Insieme al cinema e alla televisione, il videogioco si inserisce in questa corrente e Fallout ne è un esempio. La serie tv (così come la saga videoludica) mette in scena un futuro che ricalca gli anni Cinquanta degli Stati Uniti, che presto però diventa un terreno su cui si dà una critica feroce proprio al capitalismo, alla way of life di cui sopra e quindi, più in generale, alla promessa di benessere di quegli anni Cinquanta.

È impossibile vedere Fallout e non scorgere parallelismi con la contemporaneità, in particolare in relazione alla minaccia di un cataclisma imminente – non solo una guerra nucleare, ma qualcosa che possa cambiare radicalmente la faccia del mondo; è un tema di cui si è sempre discusso, ma che negli ultimi anni ha assunto una valenza simbolica ancora maggiore, per via sia delle tensioni internazionali sia dell’emergenza ambientale. Ma non è tanto l’evento in sé – di cui comunque nella serie si indagano le cause – quanto le sue conseguenze a diventare materia narrativa. Fallout racconta il mondo dopo il disastro e lo fa, da un lato, con un’impostazione visiva accattivante e derivata dal videogioco; dall’altro lato, tramite i personaggi e, in particolar modo, tramite le interazioni tra essi. La protagonista è Lucy (Ella Purnell) ed è attraverso di lei che noi arriviamo a scoprire non solo il mondo, ma anche cosa comporta vivere all’interno di esso. L’evoluzione del personaggio si accompagna alla scoperta del mondo narrativo, delle sue origini e delle ragioni che hanno condotto alla sua devastazione. Attorno a lei si muovono altri personaggi, che sono senza dubbio l’elemento migliore di questa serie: ciò che risalta nel corso delle varie puntate è, infatti, la caratterizzazione dei vari protagonisti, che pur attingendo a caratteri già noti e funzionali ad una narrazione seriale aperta, colpisce per la sua originalità. Sono figure che stupiscono e coinvolgono per i loro tratti insoliti, non banali e adatti alle particolarità del mondo di Fallout. Non si tratta solo della loro ambiguità, caratteristica della serialità contemporanea, ma anche del modo in cui si rapportano l’uno con l’altro e con le situazioni che si susseguono. 

Ma un altro elemento che merita di essere sottolineato è l’autonomia della serie rispetto alla sua controparte videoludica. Nonostante, come già accennato, l’estetica richiami esplicitamente quella del videogioco, lo storytelling della serie non cede mai ad una riproposizione schematica delle strutture da videogioco. Come Alistair Brown mette bene in evidenza in un saggio dedicato all’opera videoludica, il videogioco in quanto medium si caratterizza per una serialità che, almeno all’apparenza, ha poco a che spartire con altri tipi di serialità narrativa. Mentre la serialità televisiva segue una progressione lineare, in cui le varie puntate si susseguono l’una dopo l’altra, il videogioco si alimenta delle scelte dei giocatori, che possono far prendere alla narrazione direzioni diverse sulla base delle decisioni individuali. Eccetto per alcune svolte decise a priori, non c’è un unico ordine prestabilito nelle narrazioni videoludiche. Seppur possa sembrare un ragionamento ovvio, esso da un lato motiva le difficoltà nell’adattare i videogiochi in altri media, dall’altra spiega perché proprio la serialità televisiva, in quanto narrazione lunga, sembra essere la più indicata ad accogliere le molteplici storyline tipiche del videogioco. Ciò che è apprezzabile di Fallout è come riesce a mettere in scena il mondo e le dinamiche del videogioco pur mantenendo le caratteristiche e le strutture narrative tipiche delle serie tv; allo stesso tempo la vastità dell’universo di riferimento permette alla serie di giocare con un gran numero di personaggi e di situazioni, lavorare sulla complessità della storia e su trame multistrand, in linea con quello che il pubblico si aspetta dalla complex tv contemporanea. Il franchise di Bethesda si arricchisce così di un elemento che sfrutta appieno le potenzialità del suo medium e può quindi vivere di vita propria, parlando sia ai fan di vecchia data, sia ad un potenziale nuovo pubblico.

 

Riferimenti bibliografici

A. Brown, The Sense of an Ending. The Computer Game Fallout 3 as a Serial Fiction, in R. Allen, T. van den Berg (a cura di), Serialization in Popular Culture, Routledge, New York 2014, pp. 157-169.
K. McClancy, The Wasteland of the Real: Nostalgia and Simulacra in Fallout, in “Game Studies. The International Journal of Computer Game Research”, vol. 18 (2), settembre 2018, https://gamestudies.org/1802/articles/mcclancy.
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