La regina Carlotta: una delusione Bridgerton

 
 

Nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla delirante riscrittura dell’Inghilterra di inizio Ottocento operata della producer statunitense Shonda Rhimes e tratta da una serie di romanzi dell’altrettanto statunitense Julia Quinn. Del resto le serie e i film in costume sono sempre stati dominio incontrastato dei britannici, e non si può dire che non sappiano il fatto loro in materia (dalle varie trasposizioni delle opere austeniane a Downton Abbey). Eppure, contro ogni pronostico, quel sogno americano a effetto retroattivo che è Bridgerton ha conquistato un pubblico fedelissimo, rimanendo in vetta alle classifiche di Netflix per settimane e diventando un vero e proprio fenomeno. 

L’ombra del disastro è però sempre dietro l’angolo e i creatori della serie si sono avvicinati troppo al Sole, bruciando le proprie ali di glitter e paillettes. Hanno infatti deciso, da bravi americani, di sfruttare il più possibile ogni opportunità data loro dall’universo Bridgerton, creando (in attesa della terza stagione) un prequel incentrato su uno dei personaggi più amati: la regina Carlotta. E l’ignaro spettatore ovviamente ci casca in pieno e cade nella trappola. Peccato però che non troverà quello che cerca. Anzi, non troverà nulla.

C’era qualcosa nella prima puntata di Bridgerton che, pur spiazzando lo spettatore con una dose massiccia di follia e di trash, lo trascinava nel vortice degli intrighi amorosi di questa improbabile accozzaglia di personaggi, facendo leva sulla vecchia comare di paese che si cela in ciascuno di noi. Questo qualcosa non c’è nella prima puntata di La regina Carlotta: una storia Bridgerton, né si riuscirà a trovarla nelle puntate seguenti. Il ritmo frenetico e le situazioni assurde che strappavano un sorriso nella serie originale mancano nel prequel. Il problema fondamentale è che La regina Carlotta non riesce a indurre quella sospensione di credibilità che è fondamentale per ogni opera cinematografica o televisiva, ancor di più se si tratta di una totale riscrittura della Storia. 

Sono due le cause di questa mancata sospensione di credibilità. La prima è la scrittura dei dialoghi. Bridgerton non si può certo definire un esempio magistrale sotto questo punto di vista, ma i dialoghi de La regina Carlotta toccano livelli imbarazzanti, quasi intollerabili. È chiaro sin da subito, con il monologo di Carlotta contro i corsetti e le crinoline, che questa serie vuole essere impegnata e vuole esserlo nel modo più smaccatamente didascalico possibile. La totale assenza di sottotesto e la banalità dei dialoghi ci porterebbero a pensare che la serie sia stata scritta per un pubblico di bambini che non hanno superato ancora le elementari. L’inserimento delle consuete scene erotiche ci fa però abbandonare questa ipotesi e dunque non ci resta che sperare che la sceneggiatura delle sei puntate sia un prematuro esperimento di scrittura per mezzo di intelligenza artificiale.

È proprio la pretesa di essere una serie impegnata e di affrontare tematiche sociali in maniera seria il secondo e principale motivo per cui La regina Carlotta non riesce a immergere lo spettatore nel proprio mondo come aveva fatto Bridgerton. Sì perché, nonostante le varie grida al “politicamente corretto”, Bridgerton era riuscita ad affrontare molte tematiche scottanti, prima tra tutte la questione razziale, in una modalità inedita, quella della favola. Aveva creato un mondo parallelo, in cui la Storia viene mostrata non per come è stata, ma per come doveva essere, in cui le sue ingiustizie vengono cancellate da una pennellata di brillantini. Ma questa splendida illusione crolla nel momento in cui si cerca invece di giustificarla, affrontando di petto la questione razziale e la sua conseguente risoluzione con una banalizzazione sinceramente quasi offensiva.

Nel suo tentativo di prendere posizione, La regina Carlotta perde tutta la freschezza di Bridgerton senza però guadagnarne in profondità. Così facendo si rompe il velo di Maya dell’illusione scenica e agli occhi dello spettatore si disvela un mondo grottesco, in cui si pretende di superare secoli di ingiustizie grazie a un singolo matrimonio misto, in cui una giovane donna è continuamente mostrata tra le grinfie di un vecchio lascivo, in cui si continuano, nonostante tutte le buone intenzioni, a perpetuare gli stessi ingenui (ma non per questo innocui) stereotipi e cliché. 

Da estimatori del kitsch ora non si può far altro che sperare nella terza stagione di Bridgerton, augurandosi che essa porti con sé le giuste dosi di follia, trash e divertissement

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