Lividi: uomini, padri e figli

 

Quanto può essere difficile per un uomo parlare di mascolinità, mettere in discussione modelli educativi e ruoli di genere in tempi di crescente e necessario ribaltamento di concetti ormai superati che richiedono oggi analisi più profonde, al passo coi tempi e i cambiamenti sociali e culturali in atto? E quanto può essere sorprendente la consapevolezza di un regista di 25 anni al suo esordio al lungometraggio con un film che tratta questi temi in una forma tanto matura da apparire il lavoro di un esperto cineasta?

Prima opera di finzione prodotto dalla Onyx Collective, consociata Disney dedita alla valorizzazione di autori e tematiche appartenenti a etnie sottorappresentate nei media, Lividi di Miles Warren – disponibile sulla piattaforma Disney+ – ha l’incisività di Spike Lee e il profondo intimismo di Barry Jenkins. Un film destabilizzante e doloroso che viene a toccare uno dei principali tabù della comunità nera americana, almeno per buona parte dei suoi uomini. Se già Lee e Jenkins ne avevano avviato lo smantellamento degli stereotipi iconografici più ricorrenti – si pensi ai critici ritratti maschili che costellano l’opera del primo, così come alla decostruzione dell’immaginario virile del ghetto attraverso la graduale accettazione della propria omosessualità da parte del protagonista di Moonlight – Warren compie un ulteriore passo avanti nella medesima direzione. Frutto di un lavoro quinquennale da cui è scaturito il corto Bruiser (2021) che ha rappresentato il fulcro concettuale del film successivo, Lividi è un racconto di formazione incentrato su Darius, un adolescente diviso tra il rispetto per il rigido padre Malcolm e l’emulazione del misterioso e anticonformista Porter, figure opposte ma compatibili, unite da un passato comune con cui il ragazzo si troverà a fare i conti. Porter si rivelerà essere infatti il padre biologico di Darius, andatosene quando il bambino è nato per via di un’immatura irresponsabilità a cui ora vorrebbe cercare di porre rimedio.

Il regista viene così a riflettere su cosa significhi essere padri ed essere uomini, ruoli spesso confusi, travisati, semplificati in un connubio di durezza e mancanza di empatia che facilmente si trasferiscono anche nel legame figliale, venendo così ad alimentarne una distorta visione di generazione in generazione.

A ben vedere, Malcolm e Porter sono due facce della stessa medaglia: entrambi lottano contro sé stessi e un’emotività dettata da rabbia repressa, una violenza innata che li ha condotti a respingersi l’un l’altro e prendere strade diverse. Se Malcolm ha cercato di soffocare tale sentimento autodistruttivo sotto l’esercizio di una ferrea disciplina che si manifesta nel linguaggio forbito, il dignitoso stile di vita raggiunto e il controllo di ogni suo aspetto, Porter è un ex-detenuto la cui esperienza non ha fatto che acuire il suo risentimento. L’innesco del confronto/scontro tra loro è una futile zuffa tra Darius e un coetaneo, ennesimo episodio subito dal ragazzo che coltiva un desiderio di reazione inconfessabile al padre legale (che invita sempre a un atteggiamento pacifico e compassato) che trova però nell’altro uomo un sostegno e incoraggiamento all’autodifesa a cui si offre di istruirlo.

L’intesa crescente tra i due scatena in Malcolm il terrore di perdere il controllo sul figlio, venendo così a scatenare una serie di situazioni dettate da una forma di protezione che rasenta pericolosamente il possesso. Così si svela gradualmente il lato più vulnerabile dell’uomo, quella rabbia repressa e sfogata sull’inamovibile bilanciere con cui regolarmente si esercita: un peso sotto il quale, metaforicamente, rischia di soccombere Darius una volta che ci si cimenta esaltato dagli elogi di Porter che vede in lui un potenziale guerriero. 

Ma dove Malcolm ha cercato di mettere a tacere il suo conflitto interiore in nome del ragazzo che ha accettato di crescere per amore della moglie Monica, Porter ha imparato invece a conviverci, assumendosi la responsabilità di un pregresso violento e burrascoso con il quale bene o male ha fatto i conti e di cui nonostante tutto va orgoglioso. Entrambi sono mossi da impeto rabbioso che li porta a scatenarsi uno contro l’altro per il controllo e l’educazione del figlio, in un violento scontro psicologico e fisico che riporta alla luce precedenti evidentemente mai del tutto superati, come lividi i cui segni restano ben oltre i colpi subiti.

Si potrebbe certo obiettare che manchi nel film un’indagine a ritroso sui fattori personali, sociali o culturali che hanno maturato nei due uomini tale condizione, ma non è questo l’obiettivo di Warren. L’autore invece preferisce restare legato al suo protagonista che non ha bisogno di capire le ragioni dei padri perché non sono le sue, non riguardano lui né la sua vita. Darius piuttosto vuole comprendere i confini e i limiti del suo essere uomo, andare oltre i modelli offertigli per trovare chi effettivamente è.

Il disagio provato dopo aver aggredito l’amico che lo derideva è analogo a quello vissuto davanti al violento conflitto tra i due uomini. Riconosciuta la medesima scintilla di rabbia accesasi temporaneamente in lui e di cui è rimasto tanto spaventato quanto disgustato, abbandona entrambi alla loro lotta prima di tutto interiore, scegliendo per sé un’altra strada sulle note di quella Cigarettes and Coffee di Otis Redding ritenuta tanto noiosa a inizio film. Un inno alla dolcezza e alla semplicità di una pacificata vita interiore prima che di coppia, ideale di normalità che spesso si tende a vanificare sotto pesanti sovrastrutture che nascondono paure e frustrazioni apparentemente insuperabili.

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