Oz: la discesa nel Paradiso di HBO
Oz: diminutivo di “Oswald State Penitentiary” (Penitenziario di Stato), poi rinominato “Oswald State Correctional Facility” (Istituto correzionale statale), è il titolo e l’ambientazione della serie creata da Tom Fontana e prodotta da Barry Levinson andata in onda sulla HBO dal 1997 al 2003 (in Italia le prime 4 stagioni sono state trasmesse da Tele+ dal 2000 al 2001, le ultime due da Sky nel 2017).
Già dall’origine del titolo si può intuire come questa serie abbia ben poco a che fare con il fantastico mondo di Oz descritto nei libri di Lyman Frank Baum o mostrato (tra gli altri) nel celeberrimo adattamento filmico del 1939 di Victor Fleming con Judy Garland.
Tuttavia, questa ambiguità è significativa in quanto elemento ricorrente e identitario della serie: menzogne, tradimenti e doppi sensi sono il pane quotidiano per i detenuti del penitenziario, in particolare per coloro che sono reclusi nel braccio sperimentale denominato “Paradiso”. Si sarà capito, di paradisiaco a Oz non c’è nulla se non il fatto che l’esistenza che vi si conduce è completamente “altro” rispetto alla normale quotidianità, non soltanto perché è vissuta in un carcere, ma perché tra droga, violenza e omicidi la possibilità di passare a “miglior vita” cresce esponenzialmente con il passare dei giorni. I detenuti protagonisti della serie devono costantemente guardarsi le spalle e stringere alleanze per non essere uccisi. Se da un lato Oz è “fuori dal mondo” perché separato fisicamente dal contesto sociale ordinario, dall’altra è un vero e proprio microcosmo che riproduce su piccola scala proprio quei meccanismi di sopraffazione, potere, abusi e pericoli che sarebbe idealmente volto a contrastare attraverso il potenziale riabilitativo della pena.
Ecco allora che la scrittura di Tom Fontana (Borgia tra le altre sue creazioni) si manifesta come uno sguardo attento sulla società americana tutta, che in questa serie viene sezionata, studiata e analizzata. Sebbene vi siano riferimenti che facciano pensare sia situato nello stato di New York, Oz non ha una esplicita collocazione geografica, a simboleggiare la sua iper-rappresentatività.
A farci da Virgilio in questo mondo è Augustus Hill (Harold Perrineau), un detenuto in sedia a rotelle che saltuariamente si astrae dalla narrazione per parlare direttamente allo spettatore in veri e propri “a parte” (Fontana è anche drammaturgo), finalizzati a spiegare i vari meccanismi che hanno luogo nel “Paradiso”, nonché a presentare i vari personaggi della serie. Oz infatti si struttura su un duplice binario narrativo: quello orizzontale, che segue le varie trame distribuite sull’intera stagione, e quello verticale, che si concentra su pochi personaggi, sul loro caso giudiziario, su un singolo evento all’interno del carcere e così via. Augustus Hill introduce ogni nuovo arrivato a Oz fornendoci subito la sua anagrafica, il crimine per il quale è stato condannato e informandoci sulla pena che deve scontare in carcere. Oz assume quindi gradualmente l’aspetto e la portata di un grande affresco sociale in cui l’estrema violenza, la brutalità, l’esibizione del nudo sono pennellate di realismo che non vogliono soltanto suscitare polemica o scandalo (lo sguardo spettatoriale del 1997 era molto diverso da quello attuale), ma presentare il conto a una società che si dipinge come multietnicamente inclusiva e democratica mentre è profondamente razzista, discriminatoria e prevaricante.
Le libertà concesse a Fontana e al suo gruppo di sceneggiatori dall’emittente via cavo HBO (di cui Oz costituisce la prima serie con episodi dalla durata di poco meno di un’ora) hanno consentito a sceneggiatori e registi di spingere il pedale sulla volgarità verbale e sulle situazioni scabrose, ma l’intento alla base della serie non è puramente scandalistico. Certo, se qualcuno cerca un lieto fine è meglio che recuperi un’altra serie, perché lo sguardo di Oz è veramente critico, pessimista, quasi nichilista. Il progetto di Tim McManus (il responsabile del “Paradiso” interpretato da Terry Kinney) sarebbe quello di dirigere un reparto dove accanto alla punizione ci sia un investimento sulla rieducazione dei detenuti attraverso lo studio e il lavoro, un luogo dove l’equa proporzione di uomini appartenenti ai vari gruppi sociali (latinos, neri, omosessuali, italiani, angloamericani) sia intesa come base per un esperimento di società in cui le tensioni sociali restino in un seppur precario equilibrio, ma in definitiva l’esito di questa utopia si rivela per lo più fallimentare.
Essendo impossibile in questa sede approfondire tutte le trame o tutti i personaggi della serie, sia concesso menzionare almeno la storia d’amore tra Chris Keller (Christopher Meloni) e Tobias Beecher (Lee Tergesen): indubbiamente malata, sorprendentemente fuori contesto, ma così poetica e struggente da rappresentare un piccolo raggio di luce che ogni tanto emerge dal buio fisico e morale del “Paradiso”.