Ripley: talenti, giochi e estetica di un personaggio iconico
Thomas Ripley è uno dei più affascinanti personaggi letterari del Novecento: misterioso, controverso, ambiguo in ogni azione che compie. Nato nel 1955 dalla penna della prolifica e geniale Patricia Highsmith, è stato di grande ispirazione per la settima arte. Alain Delon, Matt Damon e John Malkovich gli hanno dato corpo puntando su uno specifico tratto della sua complessa e cangiante personalità. Per Netflix è Andrew Scott a vestirne i panni nella serie ideata da Steven Zaillian (premio Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List), una nuova produzione che rinnova e cambia l’approccio a Ripley, rimanendo aderente ad Highsmith ed esplorando gli aspetti meno scandagliati e più bui della sua opera.
1961, Tom Ripley è un truffatore senza arte né parte che trova la sua grande occasione quando il ricco imprenditore Herbert Greenleaf, credendolo amico del figlio Dickie (Johnny Flynn), lo incarica di raggiungerlo in Italia, ad Atrani, per convincerlo a tornare a casa. Dall’incontro con Dickie, che Ripley conosce a malapena, prende il via per Tom un macchinoso piano per ottenere agi e privilegi, seppur sporcandosi le mani di sangue.
Il talento di Tom Ripley – quello che è citato nel titolo del primo romanzo di Highsmith dedicato al personaggio – è quello di saper imitare alla perfezione le voci e le calligrafie altrui, un fondamentale presupposto per assumere l’identità di chi si desidera essere. Tom studia meticolosamente la vita, gli interessi e le passioni di Dickie e dopo averlo ucciso in un moto di rabbia interiore, compostissimo ma impietoso e fatale, ne assume l’identità. È un gioco appagante, proprio come lo è vivere in un ambiente che sembra arredato, pensato e progettato da Greenleaf per goderne a pieno insieme alla sua fidanzata Marge (Dakota Fanning), quella che, per non essere scoperto, il truffatore deve assolutamente tenere alla larga. Se Delon metteva in scena l’apparente ingenuità di Tom, Damon la sua aria da innocuo sfigato e Malkovich l’indole diabolica dell’uomo maturo, Scott punta sull’ambiguità e sul costante disagio che il personaggio crea in chiunque lo incontri. È lo stesso Ripley a imbastire e fomentare il mito della fascinazione verso la sua figura, a imporlo agli altri attraverso il suo bulimico e intermittente cambio di identità. In un girotondo di imprevisti, cacce all’uomo e menzogne cresce l’abilità di un criminale che osa e si spinge oltre: la sua acerba inesperienza che lo spinge a correggere il tiro più volte e agevolata dalla fortuna che sa crearsi e spremere fino all’ultima goccia. Tom Ripley non è un genio, ma un furbo che sa fiutare le occasioni e attendere pazientemente.
Il Ripley di Zaillian, con il suo bianco e nero e i suoi tempi dilatati, gioca sulla costruzione delle situazioni e delle emozioni, tartassando lo spettatore con dettagli, segni, evocazioni, false convinzioni che lo coinvolgono a tal punto da lasciarsi condurre verso una indolente dipendenza dal personaggio verso cui, però, mai si prova empatia. Il trasporto, analogo a quello che provoca la narrativa di Highsmith, cresce anche grazie alla sapiente e meditata messa in scena della tranquilla e scellerata elaborazione dei crimini. Interi episodi - o quasi - sono dedicati agli assassinii e all’occultamento dei cadaveri delle vittime di Ripley: potenziali delitti perfetti penalizzati dall’imprevedibilità del loro compiersi. Dickie e Freddie Miles muoiono per un rifiuto o per essere giunti alle giuste conclusioni, le bugie di Tom non hanno più presa su di loro e la morte è l’unica soluzione possibile per evitare lo smascheramento. Sostenuto da una colonna sonora e da uno scenario quasi totalmente italiano, il primo capitolo delle avventure dell’antieroe di Patricia Highsmith si snoda con eleganza e agilmente tra una serie di tematiche, mai veramente approfondite, eppure persistenti sullo sfondo, tasselli influenti di un mosaico sfaccettato e complesso, tra luci e ombre di tabù e attitudini non ammesse negli anni Sessanta. L’omosessualità di Tom, il suo senso di inadeguatezza, la farsa dietro cui nasconde e tenta di combattere la sua perenne inettitudine sono caratteri essenziali, tratteggiati ma onnipresenti che contribuiscono ad arricchire un personaggio destinato sin dai suoi esordi a diventare iconico con la sua inquietante pacatezza, il suo ottimo italiano e un talento per la fuga sul filo del rasoio.
Ripley è dunque una felice parentesi di Netflix, un connubio calibrato di stile e contenuto che, anche negli sprazzi di imperfezione, riesce ad essere credibile, in pieno stile Thomas Ripley di cui è il degno – se non superiore – riflesso.