Road Diary: questione di icone
Lo dicevamo già qui, parlando di Sly, documentario dedicato a Sylvester Stallone, ma ora ci ripetiamo: è una questione di icone. Thom Zimny lo sa bene (non a caso è regista di numerosi progetti audiovisivi legati a grandi star, da Stallone, appunto, a Elvis, passando per i Beach Boys e ovviamente Springsteen – di cui ha curato diversi progetti tra i quali il concerto del 2018 Springsteen on Broadway) e lo sa bene anche l’industria dello streaming, che negli ultimi anni sembra essere assai interessata a lavorare sul divismo, sulla popolarità delle leggende che hanno scolpito l’immaginario (si vedano i progetti dedicati a Vasco Rossi, David Beckham o agli 883, solo per citare i più recenti). Così, per analizzare Road Diary: Bruce Springsteen and the E Street Band (da qui in avanti solamente Road Diary), possiamo letteralmente riprendere i concetti chiavi di quanto affermato lo scorso anno per Sly. Coerentemente con quanto sta accadendo alla produzione copia carbone di questi progetti, anche le nostre analisi possono essere riprodotte puntualmente.
Il tempo è il vero protagonista del film. Il tempo e i cambiamenti che da esso derivano. Fotografie, ricordi, pellicole, b-sides, registrazioni, rughe, scartoffie, frames, interviste, programmi televisivi: tutto concorre in un processo di accumulo che necessita di essere ordinato. Road Diary non è un documentario biografico, né tanto meno il documentario di un tour. Quello è solo un pretesto. È invece un film perfettamente contemporaneo in cui il protagonista sente l’esigenza di orientarsi nel mare magnum che lo circonda, nella confusione della sua stessa esistenza.
Questa è l’icona che lascia il segno oggi. In un’epoca in cui il divismo ha ceduto il passo alla democrazia, in anni in cui la comunicazione, i social media e l’interazione hic et nunc hanno cannibalizzato qualsivoglia desiderio voyeuristico, di scoop, demitizzando le star e idolatrando le very normal people (come recita, volutamente, lo slogan della radio più ascoltata d’Italia), ragionare sulla fama e sulla costruzione di un’icona significa fare i conti con l’irrazionale, con le emozioni lontane dal nostro vissuto. Il pubblico ha fame di brividi che difficilmente potrà provare sulla sua pelle. Non è più incuriosito dai retroscena, dagli ambienti irraggiungibili o dal dietro le quinte di vite sfavillanti. Tutti quei dettagli, volenti o nolenti, sono entrati nelle case di chiunque tramite i nuovi canali di comunicazione aperti 24/7. Quello che manca, invece, è proprio la sostanza, l’essenza di un’esperienza unica sepolta sotto la polvere del tempo.
È proprio in questo solco che Thom Zimny inserisce il suo film. Road Diary non racconta nulla di nuovo, nulla che già non sapessimo in merito al suo protagonista. Tuttavia lo fa proprio sposando lo sguardo dello stesso songwriter, dando poco spazio a commenti esterni (alcuni, immancabili, fungeranno più da richiamo che da vero traino pulsante del documentario) per concentrarsi su una sorta di confessione a cuore aperto che non potrà mai essere oggettiva, ma che proprio nella sua spudorata e “meschina” parzialità, riesce a colpire nel segno. Il rischio dell’agiografia è dietro l’angolo (e in alcuni momenti si fa più che concreto) ma se si accettano le regole del gioco, il tutto funziona senza riserve e diventa un simbolo preciso del contemporaneo che stiamo vivendo.