La storia di Lyle ed Erik Menendez: parricidi e tragedie sociali

 
 

Nella mente, nei gesti e nella presunta innocenza del serial killer: ciò che il pubblico delle piattaforme richiede è sempre più diretto e specifico, improntato verso una casalinga specializzazione in criminologia. E Ryan Murphy, re indiscusso della serialità, comprese le intenzioni del suo pubblico, si è spinto sempre più oltre: non erano sufficienti le ricostruzioni di American Crime Story, ciò che serviva era uno show alla Mindhunter, monografico e ben più immersivo. Nasce Monsters che accumula consensi, tanto che la prima stagione dedicata a Jeffrey Dahmer, anche noto come il cannibale di Milwaukee, diventa un must, un argomento di conversazione anche tra i giovanissimi, folgorati, e non per forza atterriti, dal modus operandi del killer. La seconda stagione della serie antologica targata Netflix è approdata sulla piattaforma lo scorso settembre e, come era prevedibile, non ha lasciato nessuno indifferente.

La storia di Lyle ed Erik Menendez, ripercorre in nove episodi l’agghiacciante vicenda (vera) di due fratelli che uccisero a colpi di fucile i genitori e che, solo una volta scoperti, in presenza dei loro avvocati, rivelarono gli abusi subiti dal padre a partire dall’età di cinque anni. Un caso mediatico che si sovrappone a quello giudiziario, complesso e articolato, spesso smosso dalle divergenti posizioni prese dall’opinione pubblica. Lyle (Nicholas Chavez) e Erik (Cooper Koch), figli di un imprenditore cubano che si era costruito la fortuna con le proprie mani, José Menendez (Javier Bardem), e della ex reginetta di bellezza Kitty (Chloé Sevigny), maturano nell’ombra il rancore verso un padre violento e opprimente e una madre che profondamente sembra detestarli, fino a premeditare il loro omicidio. Sostenendo la tesi di un crimine commesso da esponenti della mafia, i fratelli Menendez se la spassano per due mesi con la loro eredità, finché non è Erik, il minore, a sentire il bisogno di rompere il silenzio, confidando al suo analista cosa sia realmente successo. Ciò che segue è un disorientante e continuo mutamento di prospettive attraverso cui la sceneggiatura e la regia obbligano lo spettatore a ricredersi, a diffidare, a trovarsi ad annaspare in un mare di dubbi e di possibilità spesso imbeccate dall’intervento di personaggi secondari, che essi siano avvocati o giornalisti.

Tutto e il contrario di tutto, prima mostri, poi agnelli sacrificali e viceversa: ma dove sta la verità? Forse nel mezzo e nel fatto che in ogni componente della famiglia Menendez coesistessero brutalità e insicurezza, paura e sprezzante desiderio di potere o di libertà. Estremamente interessante nella serie di Murphy è il confluire armoniosamente, l’una nell’altra, delle tematiche care all’ideatore: la violenza, l’omosessualità latente e mai accettata completamente, il riflettersi dell’orrore sul tessuto sociale circostante, il cinismo e la scaltrezza dell’arrivismo, l’idolatria e il fanatismo per il macabro. In aggiunta a ciò, persiste un saldo scheletro di riferimenti intertestuali che creano un percorso immaginario tra i personaggi portati in scena nelle serie antologiche: in parte sono forse inevitabili, vista l’epoca dei fatti – anni Novanta –, eppure vengono inseriti nella sceneggiatura in maniera armonica e accattivante. 

I fratelli Menendez vengono, infatti, definiti da alcuni “i cugini di Dahmer”, a dimostrazione di quanto i due casi avessero scosso l’intero paese, per efferatezza e controversia. Inoltre, Erik, sul finire dell’ottavo episodio si ritrova come compagno di cella O. J. Simpson, al quale si permette di dare consigli affinché la sua permanenza dietro le sbarre possa essere una breve parentesi. Dal punto di vista stilistico la seconda stagione di Monsters alterna una regia classica e lineare a scelte coraggiose come quella di un lungo piano-sequenza reso dinamico da impercettibili zoom in avanti che vuole concentrare tutta l’attenzione sulla dolorosa confessione di Erik che nel dettaglio ripercorre le violenze sessuali di José e l’indifferenza di Kitty che si prodiga esclusivamente per non perdere il suo uomo e sopravvivere ai tradimenti. Ad impreziosire un prodotto che, pur volendo essere mainstream, sa come apparire ricercato, intervengono le sorprendenti e camaleontiche performance di attori che non hanno paura di imbruttirsi e di sporcarsi in un’epoca in cui ogni scelta attoriale sembra essere un prolungamento di uno schieramento politico. Forse è proprio quella libertà di interpretazione, quella costruzione di menzogne e mezze verità che concede loro la libertà di eccedere e di mostrarsi totalmente scorretti. 

La storia dei Menendez, a differenza di quella del cannibale di Milwaukee, con tutta la sua lunga vicenda giudiziaria annessa, concede a Ryan Murphy di impartire anche una piccola lezione di etica, per mezzo delle parole dell’indignazione di giornalisti, avvocati, giurie popolari che, schierandosi o mettendo sul tavolo le loro tragedie personali – ad esempio il caso del femminicidio di Dominique Dunne – aprono una riflessione su chi meriti una difesa e chi no, su quando e come la punizione della legge sia proporzionata al crimine commesso. Diventa, dunque, evidente quanto la serie del momento nasconda molti più sottotesti di quelli che essa stessa voglia far trapelare, forse perché per restare a galla nel marasma del mainstream made in USA serve furbizia e tanto ammiccamento, e il buon vecchio Ryan lo sa bene.

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