Shogun: Un viaggio brutale nell'esotico fra melting pot culturali e lotte dinastiche
Mentre i conquistadores spagnoli e i portoghesi con i loro galeoni e le loro golette esploravano con avidità in lungo e in largo, in cielo e in terra, per ordine di sua maestà il Re e di sua maestà la Regina, i tanti punti inesplorati nei quali è fondato il Nostro mondo, anche la Corona inglese del XVII secolo, con quella olandese, è una delle potenze dei mari ma in un altro modo. Fondamentalmente animati da una apparente pura ed incrollabile fede antipapale di matrice protestante, l’equipaggio dell’Erasmus, dopo un tanto agognato viaggio, sbarca o meglio naufraga letteralmente in un altro mondo: quello dell’esotico Giappone, dove l’Anjin - il pilota, come verrà successivamente titolato il britannico John Blackthorne (Cosmo Jarvis) - sperimenterà tutte le implicazioni e le difficoltà di adattamento in una continua serie di Lost in Translation, non a caso un altro titolo ambientato in Giappone. Ed è singolare come il pot-pourri sia ricorrente quando l’Occidente si confonde con l’estremo Oriente attraverso i ritratti dei personaggi che popolano quelle storie; ed è a parer mio qui che risiede la forza, nella sopravvivenza di riconoscere e riadattare i propri costumi comunicando e padroneggiando la cultura altrui con la modestia del discente, prima naturalmente con scetticismo e poi divenendo parte, accettando e trasformando la propria scala di valori a piccoli passi tagliando fuori sempre più il pregiudizio, è uno scontro energico di crescita bilaterale fra due visioni del mondo, scoprendo nuove forme di amore, di gentilezza, di ospitalità, di consumare un pasto oppure di come fare la guerra. Perché in tutto questo che finora ho cercato di raccontarvi sembrerebbe che abbiamo a che vedere con una storia di formazione in divenire verso l’alto, ma in realtà siamo nel ben mezzo di un conflitto, una guerra logorante e dinastica che parte da lontano.
L’arrivo dell’occhio occidentale si innesta e partecipa e vuol comprendere, anche con difficoltà entropiche dovute ad un contesto di completa instabilità storica-sociale, ed è sempre in bilico sul dove e come posizionarsi per avere una visione d’insieme nell’analisi concreta dei fatti e della inevitabile escalation che produrrà un conflitto bagnato di sangue rosso fuoco. Di sotterfugi e di ambiguità nelle strategie politiche-militari attuate ne è pieno il racconto dove, anche un singolo gesto, un affronto che proviene dal passato ha delle conseguenze inaspettate per il grosso puzzle oscuramente controllato da Yoshi Toranaga (Hiroyuki Sanada), vero protagonista della nostra storia, che con fare shakespeariano pianifica le sue mosse sulla scacchiera. Noi seguiamo e osserviamo tutte questi numerosi spostamenti, e lo facciamo esclusivamente da occidentali con l’occhio inglese dell’”Anjin” Blackthorne che diverrà addirittura hatamoto – un samurai d’alto lignaggio, direttamente nominato nella serie da Toranaga –, proprio perché è complicato comprendere dal di fuori le dinamiche e le flebili sfumature strettamente connesse alla linguistica giapponese: nella forza del poetare haiku, del rituale del tè, della lotta e dei colori degli abiti, oppure di quanto un oltraggio, una parola o una sillaba in più fuori contesto può comportare un seppuku – l’antico rituale suicida per esorcizzare la vergogna –, è chiaro che la forza del rispetto altrui sia imponente e gerarchizzata, ovviamente sempre circoscrivendo l’atto allo status sociale accompagnando il gesto con l’immancabile inchino.
E difatti, l’inchino più statuario e importante è quello di Mariko (Anna Sawai) e sarà senza compromessi e senza alcun rimorso verso innanzitutto Toranaga ma anche nei confronti dell’Anjin, anche qui nonostante le differenze – culturali in primis ma anche religiose, lei cristiana cattolica mentre lui protestante –; non è un caso che nella serie Mariko è una traduttrice, votata ad azzerare le lacune en traduction del britannico ma anche di noi stessi, verso il Giappone e le scelte personali che intraprendono ogni singolo personaggio, a prescindere da tutto e da tutti. Mariko è la porta che noi spalanchiamo per avvicinarci al Giappone e dunque è grazie al suo splendido sguardo da eroina sofferente “in attesa della morte” che noi ci innamoriamo perdutamente di lei, del suo percorso di martirio e di un estremo Oriente storicizzato alla perfezione in questa superba miniserie televisiva contenitrice di molteplici registri.
Shogun è il termine che indica una dittatura politica-militare, inteso come titolo nobiliare ereditario di “super generale”, e questa è la storia di un’ascesa o di qualcosa di molto simile, un preannuncio fondato sul caos dove le intenzioni non sono chiare, appunto caotiche. E mentre con i nostri occhi estranei indugiamo più e più volte sull’armatura di un fantomatico Shōgun ancora vacante, sappiamo bene che quel posto e quel leggendario corpo verrà riempito, prima o poi. E ci allontaniamo infine con l’impassibilità e il distacco zen di Toranaga che osserva dall’alto il suo progetto di conquista ancora annebbiato ed insicuro, sorvola il mare che ha spinto fino ad una terra così apparentemente lontana Jack Blackthorne e la sua Erasmus.