The Curse: una rovinosa caduta nell’ipocrisia e nella sociopatia dell’apparenza
Serialità significa da almeno un decennio colpi di scena, ritmo serrato e binge watching, e se invece il 2023 avesse regalato al pubblico delle piattaforme un prodotto che va a sovvertire questi tre principi cardine? Detto, fatto: The Curse, che ha debuttato su Paramount+ il 10 novembre e si è conclusa il 12 gennaio, è l’esempio di come tutto ciò che si ritiene essenziale in una serie non lo sia affatto. Ideata, scritta e anche parzialmente diretta da Nathan Fielder e Benny Safdie, The Curse è una rovinosa caduta nell’ipocrisia e nella sociopatia mascherata degli esseri umani che vogliono ad ogni costo apparire perfetti, impeccabili e giusti.
Whitney (Emma Stone) e Asher (Fielde) Siegel sono una giovane coppia sposata da poco più di un anno, con un progetto grandioso: dare nuova vita alla degradata comunità di Española, nel New Mexico, combattendo la gentrificazione con la costruzione di case passive – ecosostenibili – che rivalutino l’area senza però allontanare la popolazione locale, dandole, al contrario, nuove possibilità di lavoro. Grazie all’intervento del filmaker Dougie (Safdie), il progetto socio-artistico di Whitney diventa uno show televisivo, Flipanthropy (poi Green Queen) sulla falsa riga di Extreme Makeover, home Edition, una prospettiva di successo che, di pari passo alla maledizione lanciata da una bambina a Asher, incrina il legame di coppia annullando complicità e armonia.
L’intelligenza di una serie come The Curse sta nel non mettere confini tra realtà e finzione, lasciando che sia lo spettatore a decidere, sulla base dei comportamenti di personaggi detestabili e con cui è impossibile empatizzare, dove sia il limite e quanto la falsità abbia intaccato e corrotto l’animo umano. La vicenda ruota attorno ad un trio disfunzionale: Whitney, travestita da reginetta ecologista, altruista e comprensiva, è una mostruosa e spregiudicata calcolatrice alla ricerca del successo personale che la allontani dalla cattiva reputazione dei genitori che, più o meno consapevolmente, emula senza darlo a vedere. Asher è inetto fino al midollo, devoto all’inverosimile, plasmato e governato da una moglie, un amico e una società che di lui si approfitta: ogni suo flebile tentativo di ribellione, di rialzare il capo e riappropriarsi della sua dignità viene schiacciato da una forza estranea che, come la gravità, lo inchioda ad una superficie stabile ma castrante. Dougie, sopravvissuto al trauma di un incidente in cui ha perso la moglie, cerca di manipolare le dinamiche televisive per il suo personale e puro divertimento, sperimentando un format pruriginoso e scorretto che possa far aumentare gli ascolti e decollare la sua attività, oltre che generare discordia nella coppia di amici alla conduzione di Flipanthropy.
Alle regole dei protagonisti devono piegarsi i personaggi di contorno, i nativi di Española, i derelitti che necessitano di un aiuto concreto che va oltre il tamponare alla bell’e meglio esigenze primarie. Ciò che viene sottolineato all’inverosimile nello show non rispecchia la realtà. Le azioni di Whitney sono calcolate perché il buono e il giusto emergano solo attraverso una finzione fatta di battute telefonate, sorrisi e cliché sdoganati che scaldano il cuore solo a chi nell’ipocrisia è cresciuto e da essa è alimentato. L’atmosfera di The Curse si fa episodio dopo episodio più pesante, nauseante e straniante. La critica sociale, portata avanti da più angolazioni, miete vittime e mostra lo sporco radunato sotto i tappeti – dietro alle porte delle case passive - dimostrando come esso non possa essere debellato senza rischiare. Eppure, è proprio il rischio che i personaggi della serie non vogliono correre, non nella corretta direzione: si apre dunque una nuova possibile chiave di lettura che affonda le sue radici nel linguaggio, quello interiorizzato da una società capitalista e dei consumi che si è ideata il suo alfabeto personalizzato, in cui significato e significante non combaciano e neppure vengono percepiti univocamente.
Ciò che, invece, emerge cristallino, è che i ricchi resteranno ricchi e i poveri resteranno poveri, la prova ne è che Whitney decida di combattere la criminalità del quartiere pagando con la propria carta di credito i jeans a chiunque provi a rubarli dal negozio aperto per le riprese dello show. L’intervento delle forze dell’ordine darebbe nell’occhio, dunque meglio sostenere il crimine lasciandolo agire indisturbato, quasi gratificando i malviventi. Fielder e Safdie hanno costruito una struttura solidissima in cui il labirinto di specchi che riflettono l’indole umana, abbaglia e disorienta. La traccia della maledizione – quella del titolo, lanciata da una bambina per prendere parte a un trend di Tik Tok – usata come pretesto per otto episodi, diventa centrale nell’ultimo che cambia rotta abbandonando la chiave sociale per gettarsi a capofitto in quella surreale. Una punizione, uno scherzo del destino, un lieto fine impossibile, o una trovata pubblicitaria per lo show – quest’ultima interpretazione è quella sostenuta dagli abitanti del quartiere, impregnata di cinismo qualunquista diffuso ed insegnato dalla regina verde e dal suo giullare –, il finale di The Curse è il colpo fatale, quello cha fa amare o detestare un prodotto non per tutti, che divide proprio perché nel profondo comprensibile da ogni spettatore. Stone, Fielder e Safdie percorrono fino in fondo la strada della scomodità urticante, rendendosi tramite di una visione deformata e provocatoria del mondo in cui siamo immersi e da cui solo una maledizione potente, chiamata etica, può salvarci.