The Matchmaker: un’esperienza immersiva - e criptica - nell’Arabia Saudita
Sembra l’inizio di una favola il prologo di The Matchmaker, uno dei primi thriller psicologici dell’Arabia Saudita distribuiti da Netflix. C’è una voce che racconta di una ragazza - Aliaa - e di un uomo che si innamora di lei, ma che con il passare del tempo diventa motivo di sofferenze: inizia a ferirla, ad annientarla. La giovane cerca qualcuno in grado di aiutarla, fino a che, nel bel mezzo del deserto, una persona (definita “particolare”) la ascolta e capisce il suo problema. Da questo momento in poi, la narrazione cambia registro e conosciamo un uomo, Tarek, annoiato dalla routine quotidiana e dalla vita matrimoniale e familiare. Cerca di compensare la frustrazione spiando una coppia che si diverte e balla nell’appartamento di fronte al suo palazzo. L’invidia che prova, però, mette in moto un processo (inizialmente inconscio, poi consapevole e concreto) di reazione; l’incontro con Salma, poi, nuova stagista dell’azienda dove lavora, accelera ulteriormente l’operazione e comporta conseguenze inaspettate.
La pellicola diretta da Abdulmohsin Aldabaan mette insieme - forse - troppi elementi: c’è l’aspetto folkloristico (il film è ambientato ad AlUla, un sito del patrimonio mondiale dell’UNESCO in Arabia Saudita, oggi meta anche per il nuovo turismo di lusso nel deserto) e l’intento di restituire agli spettatori l’immaginario di un paese con le sue tradizioni, le sue usanze e le sue leggende; ci sono la tensione e la suspense che ricordano le atmosfere dei thriller psicologici; c’è la rappresentazione del ruolo della donna e delle diverse responsabilità assunte in confronto all’uomo. E, ancora, c’è una simbologia (c’è, ad esempio, un anello che attribuisce poteri a chi lo indossa) da indagare e approfondire. La somma di tutti questi “ingredienti” è un prodotto per certi aspetti irrisolto, che si appoggia - adagiandosi - sulla capacità di creare mistero e finisce per allentare il ritmo, arrivando persino a fermarsi. La componente adrenalinica, allora, diventa un’arma a doppio taglio, sviluppata a metà, quasi approssimativamente.
Al di là dell’incipit in stile “c’era una volta”, The Matchmaker, viene raccontato dal punto di vista di Tarek; l’assunzione di questa prospettiva, però, consente un’empatia spesso sfiancante, dato la continua insoddisfazione che esprime il protagonista. L’occasione per risollevarsi (e per risollevare anche le “sorti” della pellicola?) arriva quando si dirige in un resort di lusso - un po’ come quello di The Lobster - per inseguire Salma e poterla sposare, facendo affidamento su un’esperta mediatrice matrimoniale. Questo passaggio viene, però, affrontato troppo frettolosamente, senza soffermarsi sufficientemente sulle interpretazioni (soprattutto quella della proprietaria dell’hotel, una delle figure più interessanti del film) e sulle reazioni dei personaggi. Qualcosa manca, e non è semplice ascriverla ad un preciso aspetto. È vero, poi, che ci possano essere stati timori di un’eventuale censura, tali da spingere a mantenere un controllo più rigoroso, senza eccedere. Rimane un punto certo: The Matchmaker rinuncia all’autenticità (a cui fa anche riferimento, elogiandone l’importanza) per concludersi in un incubo che non risolve nulla, ma riapre i giochi, senza chiarirsi. Una via di fuga, allora, più che una vera e propria chiusura.