1923 Stagione 2: L’odissea dei Dutton, dal Tennessee al Montana

Jacob Dutton è in Montana dal 1894, la sua unica preoccupazione è sopravvivere, come dice egli stesso nell’episodio 1 della seconda stagione di 1923. Harrison Ford, che interpreta Jacob con abnegazione e fiera dignità, calpesta la promised land che un secolo e mezzo prima Mason e Dixon avevano separato dal Sud, creando l’asse espansionistico Est-Ovest e plasmando l’immaginario dell’epopea western. Nuovamente all’interno della saga familiare dei Dutton, ci avviciniamo sempre più al cuore di tenebra di un’America feroce, portatrice di un capitalismo edonistico e schizofrenico

Continua l’acerrima lotta tra Whitefield (Timothy Dalton), incarnazione diabolica del progresso, e la famiglia Dutton per il possesso dello Yellowstone; intanto, Spencer, nipote dei Dutton, e sua moglie Alex cercano di ricongiungersi in Montana affrontando due perigliosi viaggi paralleli. Teonna, la giovane nativa crow in fuga da un feroce sceriffo e da un prete invasato, è impegnata nella sua guerra privata contro i padroni bianchi, mentre in Montana, a vivere nella “stagione degli omicidi”, è rimasta Elizabeth, la moglie di Jack, incapace di adattarsi a un luogo che è connaturato ormai alla morte e all’oblio.

La seconda stagione di 1923 può essere letta come cartina di tornasole dell’oscurantismo americano contemporaneo: guerra economica, demonizzazione dell’immigrato, conflitti interetnici, visione patriarcale della società e invasamento messianico, sono solo alcuni aspetti che la serie porta alla luce come in un un western revisionista, sorretto però da un impianto classico improntato a un tragico realismo e a un acceso sentimentalismo.

Taylor Sheridan, ideatore della saga, ha uno sguardo talmente progressista che permette ad alcuni personaggi di chiara matrice conservatrice di riflettere sulle norme stringenti che vietano il matrimonio misto – il caso di Zane, sodale dei Dutton, unito in matrimonio a una donna asiatica – o di inchiodare la “terra promessa” al suo retroterra culturale che utilizza la discriminazione e la vessazione come mezzi per la risoluzione delle controversie: è quello che accade, ad esempio, nell’avamposto infernale di Ellis Island, dove Alex controbatte ai suoi aguzzini utilizzando abili strategie, il sonetto (o sogno democratico) di Emma Lazarus o le poesie di Walt Whitman, conducendo una vera e propria resistenza poetica e civile.  

Come Django, la miniserie creata da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli che guardava alla contemporaneità rileggendo gli spaghetti-western, o Lawmen – La Storia di Bass Reeves, sempre a firma di Taylor Sheridan, 1923 è in larga parte una microstoria degli ultimi. Attraverso il classicismo dell’epos frontaliero, racconta le violenze contro i nativi e la ribellione del popolo dei crow, per i quali steccati e recinzioni non significavano nulla; solidarizza con la ferma opposizione delle donne allo strapotere maschile e ammette persino possibili redenzioni laiche, ad esempio quella che spinge uno dei villain a pentirsi della propria meschinità.
Non vi è un amore interetnico a suggellare il continuum con un topos classico (originatosi dalla celebre Pocahontas dei Powhatan), ma vi sono scelte narrative audaci che rimandano ai capisaldi del genere cinematografico. Pensiamo alla nascente industrializzazione turistica voluta da Whitefield che mostra in chiave peckinpahiana (il riferimento potrebbe essere La Ballata di Cable Hogue, 1970) il rafforzarsi della bieca logica imprenditoriale secondo cui l’ebbrezza del rischio è più forte di ogni etica individuale.

Tutto in 1923 è velato di un crepuscolarismo e di un intimismo che si ritrovano tanto nelle avventure più rocambolesche, quanto nelle situazioni in cui l’atmosfera melò si fa più accentuata, ma il punto forte della serie è la capacità di dispiegare il Grande Romanzo Americano con una scrittura di ampio respiro che guarda criticamente alla contemporaneità nazionalistica di oggi, attraverso un citazionismo che rimanda ai vecchi classici.

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