Diamanti: i fantasmi del cinema di Ferzan Özpetek

Quando si guarda e si analizza un film, ogni scena risulta fondamentale poiché concorre a costruire il significato complessivo del film. Un esempio molto evidente di ciò è la prima scena di Diamanti, ultima fatica del regista italo-turco Ferzan Özpetek, che dopo aver sbancato al botteghino approda su Now Tv.

In essa, vediamo su una terrazza romana, oramai simbolo del cinema del regista, proprio Özpetek, attorniato da un gran numero di attrici: molte di loro son collaboratrici storiche del regista, altre invece non ci hanno mai lavorato. Il regista, però, le ha volute tutte insieme alla sua tavola per leggere la sceneggiatura del suo nuovo film, Diamanti appunto, pensato esclusivamente per mettere in risalto le “sue attrici”. È proprio da qui, da questo primo table read che prende vita la storia della sartoria gestita negli anni Settanta dalle sorelle Canova (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca), attorno alla quale ruotano diverse figure, ognuna con i suoi drammi personali. Un intreccio, quello articolato dalla sceneggiatura di Özpetek, di stampo evidentemente corale, nel quale ogni attrice viene messa in risalto – in questo senso sì che il film è pensato per dare lustro alle attrici che vi ci recitano.

Il focus di Diamanti, tuttavia, è un altro: la scena di apertura getta sul film quello che è chiaramente un taglio meta-cinematografico, visto che la sceneggiatura che regista e attrici leggono è evidentemente quella del film (nel film) che noi stiamo vedendo. Questa mise en abyme stravolge completamente il senso dell’operazione: il film, così, dacché poteva essere un classico melodramma cui il regista ci ha abituato da anni, diventa una vera e propria meditazione da parte di Özpetek sul suo stesso cinema, sui temi e sulle figure care alla sua produzione. In quest’ottica, la costruzione corale della pellicola e il battere sugli stilemi tipici özpetekiani – il cibo, la musica, la passione travolgente, i temi d’attualità - diventano dunque oggetto di tale riflessione da parte del regista, il quale fa il punto del suo lavoro, avendo raggiunto una piena maturità del suo cinema.

Questa riflessione viene imbastita da Özpetek proprio a partire dall’evocazione, all’interno della sceneggiatura interna al film, di personaggi, ambienti, atmosfere che infestano le sue opere. Perché, nel cinema del regista turco, il fantasma è una presenza fondamentale, centrale e ricorrente: in tutti i suoi film aleggiano figure che c’erano, e ora non ci sono più. In senso più letterale, la presenza fantasmatica in Diamanti risiede, nella scena finale, nell’apparizione di Elena Sofia Ricci, che parla all’Özpetek solo sul set dell’importanza, nel cinema, di ciò che si sente. Ma oltre a questo, tutte le figure che abitano la sartoria, all’interno dell’impalcatura meta-cinematografica, evocate dalla lettura, appaiono come veri e propri fantasmi. Fantasmi che evocano, richiamano e simboleggiano un intero immaginario, un modo di fare cinema di un’artista oramai consumato.

La grandezza di un’operazione come quella di Diamanti risiede tutta in questa capacità del suo autore di meditare, riflettere e sbrogliare quelle che sono immagini e motivi che lo hanno sempre ossessionato e infestato. La grande consapevolezza di Özpetek gli permette di impiegare il meta-cinema non per puro vezzo, ma all’interno di una necessità personale di ripensarsi e rimettersi in discussione, segno di una maturità poco comune nel nostro cinema.

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