BoJack Horseman: i due poli dell’esistenza

 

A distanza di tre anni dalla sua conclusione, si può affermare senza dubbio che BoJack Horseman (Netflix, 2014 – 2020) abbia attraversato nel corso della sua breve vita tutta una serie di fenomeni sociali, dal movimento Me Too alla cancel culture, e abbia avuto l’intelligenza di renderli parte del proprio tessuto narrativo. Facendo frequentemente satira dello show business hollywoodiano, questa serie ha fotografato i lati oscuri di quel sistema, accompagnando la propria critica ad una riflessione cinica sul potere che hanno i media nella costruzione di un sentire collettivo. Per quanto frequentemente si rida in BoJack Horseman, la risata si accompagna sempre ad un sapore amaro, ancora più intenso quando diventa chiaro che la serie non preveda alcun tipo di consolazione.

BoJack Horseman, creata da Raphael Bob-Waksberg, ha ribaltato sin dai suoi primi episodi il paradigma che associa l’animazione e in particolar modo l’animazione con animali antropomorfi a contenuti pensati per l’infanzia. Divenuta col tempo serie di culto contrassegnata dalla trattazione di temi esistenziali, BoJack Horseman merita di essere ricordata anche per il raffinato lavoro di scrittura che vi sta dietro. Combinando l’animazione con la complessità narrativa che caratterizza la serialità televisiva di oggi, questa serie dà forma lungo sei stagioni ad una storia che si snoda secondo modalità ripetitive via via sempre più riconoscibili, che però non precludono la presenza di derive sperimentali.

Ognuna delle sei stagioni ruota attorno ad una questione di carattere pragmatico che riguarda la carriera del protagonista BoJack, attore di una vecchia sitcom di successo, o di uno dei comprimari (la campagna elettorale di Mr. Peanutbutter nella quarta stagione). Parallelamente a questa trama portante si sviluppano sottotrame di natura relazionale che coinvolgono BoJack e gli altri personaggi, in un carosello di temi esistenziali che spaziano dalla maternità alla morte, dalla sessualità alla depressione. 

Per quanto una struttura di questo tipo rappresenti un approccio tutto sommato convenzionale, la serie lascia moltissimo spazio alla sperimentazione. Sono molti gli episodi in cui la narrazione principale passa attraverso una decostruzione delle aspettative, inserendo nel flusso di immagini punti di vista inconsueti o modalità di racconto eccezionali. I due esempi forse più indicativi sono il quarto episodio della terza stagione (Un pesce fuor d’acqua) e il sesto episodio della quinta stagione (Churro gratis); il primo, oltre ad essere ambientato sott’acqua, è quasi interamente muto; il secondo si configura per la maggior parte come un monologo di BoJack all’interno di un’unica location.

Ma la sperimentazione si dà frequentemente anche all’interno delle singole inquadrature, con un costante dialogo tra primo e secondo piano, la cui funzione è sia quella di raccontare in tutti i suoi aspetti l’eccentrico mondo diegetico, sia di esprimere visivamente la storia ingarbugliata che la serie dispiega stagione per stagione. Un esempio di quest’ultima tipologia è il secondo episodio della quarta stagione (La vecchia casa dei Sugarman), che si svolge su due piani temporali e dove frequentemente l’inquadratura è contesa tra il racconto del presente e quello del passato. Questo episodio è emblematico del rapporto che la serie intreccia con il tempo, dove il passato, il presente e il futuro sono frequentemente messi in relazione simultaneamente per dare un senso complessivo alla vicenda.

Se questo aspetto è in fin dei conti secondario nella prima stagione, col procedere della serie il rapporto col tempo si fa sempre più complesso; questa crescente complessità, inoltre, si accompagna ad una tendenza sempre maggiore all’autoriflessività. BoJack Horseman riflette sempre di più su se stessa e sulla sua natura seriale, coinvolgendo gli spettatori in un gioco di rimandi a gag e situazioni passate, che evidenziano l’eleganza della scrittura.

Bojack, portatore di tutti i tratti dell’antieroe contemporaneo, è il centro di questo intreccio narrativo il cui senso ultimo è racchiuso nell’oscillazione continua tra due poli, esplicitati dal quarto episodio della prima stagione (Tra Zoë e Zelda), quello della felicità e quello dell’infelicità. Un saggio di Enrico Terrone, intitolato proprio La ricerca dell’infelicità, ha individuato in questo sistema bipolare la natura profonda della serie. I personaggi di BoJack Horseman si dividono tra Zoë e Zelda, dove le prime tendono alla infelicità e le seconde alla felicità. È lo stesso BoJack, prima di ogni altro, a ricercare l’infelicità, non solo per se stesso ma anche per gli altri.

La serie da questo punto di vista non è mai consolatoria, nemmeno nel suo finale, che anzi è uno dei momenti più amari. La sesta e ultima stagione di BoJack Horseman si divide in due volumi: il primo racconta la redenzione di BoJack, il quale fa pace con il suo passato e decide di intraprendere un percorso di rinascita; il secondo volume, però, afferma che per questo protagonista non c’è redenzione possibile. A causa dell’inchiesta di due reporter, tutta la verità su BoJack viene a galla e proprio nel momento il cui il personaggio aveva deciso di essere altro da sé, si ritrova costretto a pagare per tutti i suoi errori.

Se tutta la serie fosse stata narrata da un altro punto di vista, magari quello di Todd o di Penny – uno dei personaggi che hanno sofferto di più a causa di Bojack – questo finale avrebbe rappresentato la rivincita dei buoni e la sconfitta dell’antagonista BoJack. Invece l’intelligenza di BoJack Horseman sta proprio nel continuare a proporre dubbi morali allo spettatore fino alla fine, mettendoci difronte ad un protagonista colpevole e sconfitto ma con cui provare ancora a empatizzare.

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