Capote vs The Swans: in Guerra per amare e essere amati

 
 

Tra le decine e decine di serie ideate da Ryan Murphy, tra le più o meno riuscite, le più acclamate dal pubblico e quelle passate in sordina, l’antologica Feud è risultata sin dalla prima stagione un prodotto interessante perché capace di scandagliare i retroscena e le faide dietro alla maschera di sorrisi e successo di celebrità note in tutto il mondo. Con Bette and Joan si svelavano gli altarini della faticosa e controversa realizzazione del film Che fine ha fatto baby Jane?,  attraverso la guerra spietata  per la riconquista della luce dei riflettori di due attrici – Davis e Crawford – che avevano già ampiamente lasciato il segno nella settima arte. Si è in seguito parlato di una seconda stagione incentrata sulla faida personale e legale che ha portato al divorzio tra il Principe Carlo e Lady Diana, ovviamente mai realizzata (si può ben immaginare quanto potesse approvare la corona britannica). Infine, dopo anni di lunghi silenzi, nel 2022 Feud ha trovato pane per i suoi denti e la seconda stagione, approdata in Italia a maggio su Disney+, ha visto la luce raccontando il più spiacevole capitolo della vita del geniale scrittore americano Truman Capote.

Capote vs The Swans copre un arco narrativo di nove anni, dal 1975 alla morte dello scrittore avvenuta nel 1984, con l’aggiunta di un paio di parentesi precedenti e future. Proprio nel ’75 venne pubblicato sulle pagine di Esquire uno scritto di Capote, La Cotes Basque 1965, in cui l’autore di A sangue freddo e Colazione da Tiffany, nel tentativo di fornire uno spaccato realistico e cinico dell’alta società newyorkese, seppur sotto nomi fittizi, rendeva pubblici tutti gli scandali privati delle donne che da anni frequentava assiduamente: i suoi cigni, come lui le chiamava, per cui era un amico fidato, un confessore e un giullare di corte da portare alle feste e alle cene per fare gossip. Una mossa imprudente che a Capote causò solamente guai. La serie, diretta da Gus Van Sant,  Max Winkler e Jennifer Lynch, in primo luogo mostra Capote (Tom Holander) nei rapporti e nella quotidianità con le donne, su tutte con Babe Paley (Naomi Watts), quella che dallo scritto rimarrà maggiormente scottata, per poi saltare repentinamente a pubblicazione  avvenuta e alle ritorsioni, più che altro emotive di una guerra che nessuno dei personaggi gioca ad armi scoperte o con mosse eclatanti. Sono il distacco, l’inganno, il tradimento i grandi  tarli che rodono le due impari fazioni in maniera sincrona, che conducono all’esilio, al senso di colpa e alla morte.  Nella ferocia di un atto distruttivo e irreversibile come la messa in piazza, nero su bianco, degli affari altrui, segue un confronto silenzioso, innaffiato da alcol, tenuto in vita da farmaci, chemioterapia. Truman Capote, inattivo dai tempi di A sangue freddo, soggiogato da una dipendenza che lo porterà alla morte per cirrosi epatica, quando si sente abbandonato, destinato ad una indifferenza che non prevede possibile perdono, prova a rifugiarsi nell’utopica realizzazione di un romanzo che sia la degna conseguenza de La Cotes Basque, Preghiere esaudite, che mai completerà, mentre i cigni cercheranno di tornare alle loro vite facendo i conti con il tempo che passa e con un mondo che cambia tanto da relegarle a pezzi da museo (come i quadri che acquistano compulsivamente).

Di Truman Capote, come già era successo con le dive hollywoodiane della prima stagione, viene raccontato il declino, il bisogno di essere amato e accudito, da creature perfette come Babe – che per Truman è l’incarnazione della madre che avrebbe voluto – o dagli uomini che frequenta , i quali non approvano la sua sregolatezza e la sua incapacità di prolungare i risultati ottenuti dalle innumerevoli riabilitazioni. Tra sfarzo, vino che gorgoglia versato nei calici, abiti di haute couture, comparsate di figure come Richard Avedon o James Baldwin, gli equilibri, i corpi e la lucidità si deteriorano: i cigni invecchiano, perdono occasioni, impallidiscono  e muoiono, Truman si sforma, biascica, naviga nella disperazione e nella solitudine, fino a trovarsi a dialogare con il fantasma/angelo della morte (Jessica Lange) – un canone tipico delle produzioni di Murphy – che non perde occasione per sussurrargli parole spregevoli e consigliarli il suicidio. 

La regia passa da un candido, pulito e rigoroso ritratto della società che conta, ad un allucinato e bulimico schizzo della fine funesta e inarrestabile che deve dare pace ai protagonisti e allo spettatore che è completamente immerso nelle immagini che scorrono e generano edonismi contrastanti seppur ugualmente atroci e repellenti. La solidissima scrittura di Joan Robin Baitz è esaltata da performance in stato di grazia di attori completamente immersi nei loro ruoli: Hollander su tutti, posseduto dallo spirito di Capote, ma anche Watts, Diane Lane, Chloe Sévigny e Demi Moore tornano all’antico splendore di attrici che, un po’ come i loro personaggi, sono state lasciate ai margini di un cinema americano mainstream che cerca nuovi giovani volti, scaltri e plasmabili. Capote Vs The Swans, approfitta, inoltre, della faida per sottolineare e mettere in rilievo temi caldi tanto negli anni Settanta quanto oggi: il pregiudizio, il buonismo, l’ipocrisia, la poca tolleranza del diverso da nascondere sotto un’accettazione che rende fenomeni da baraccone, il tutto calibrato e affilato al punto giusto, così da punzecchiare l’attenzione del pubblico senza provocare apertamente. Si tratta di una visione più stratificata di quanto si percepisca, i piani di lettura sono tanti e spesso si incontrano e coesistono, esattamente come tanti sono gli elementi da tenere in considerazione se si analizza il tormento e la fama di un autore che la letteratura l’ha segnata e scossa dall’interno.

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