Il simpatizzante: battersi sul campo dell’immaginario
“In America è chiamata la guerra del Vietnam. In Vietnam è chiamata la guerra d’America […] Tutte le guerre sono combattute due volte. La prima sul campo di battaglia, la seconda nella memoria”. Il simpatizzante – la nuova miniserie firmata da Park Chan-Wook, tratta dall’omonimo romanzo premio Pulitzer di Viet Thanh Nguyen (andata in onda su Sky e disponibile su Now) – esordisce con questa affermazione statuaria secondo cui non esistono verità, ma solo punti di vista; non esistono vincitori sul campo di battaglia, ma solo nella memoria; non esistono culture, ma solo riscritture. Come dice un’altra affermazione statuaria, dai tratti propagandistici, pochi secondi dopo: “Ricominciare. Ricordare. Rieducare. Rivoluzione… E riscrivere”.
Siamo già nella battaglia che si combatte sul campo della memoria. A pronunciare queste parole è un generale vietnamita (del Vietnam del nord comunista) a un francovietnamita che ha lavorato come spia tra la polizia del sud del Vietnam filo-americano, ma che deve, tramite scrittura e narrazione (racconto e ricordo), dimostrare e testimoniare tutto ciò agli apparenti alleati del nord del Vietnam: dalla caduta di Saigon all’esodo a Los Angeles, in cui porsi il problema della sopravvivenza di una comunità, fino al ritorno in quella cella in patria da cui sta scrivendo e a cui la serie costantemente ritorna quando il generale vietnamita, suo interlocutore, chiede spiegazioni riguardo a deviazioni, manipolazioni o precise motivazioni di ciò che sta leggendo.
Sono memorie, confessioni, testimonianze, alibi… ma a cosa corrisponde davvero ciò che vediamo? È ciò che ha vissuto il protagonista? Quello che ha pensato? Ciò che sta leggendo la guardia? O quello che sta immaginando? Questa ambiguità di fondo emerge come fondativa di una natura non lineare e non programmatica, non unitaria. Da che parte sta il protagonista? Da entrambe? Da nessuna delle due? Nelle sue manipolazioni, frammentazioni e omissioni, Il simpatizzante racconta proprio la ricerca di un’identità alla prova della sua messa in crisi. Una battaglia che si combatte sul campo della memoria, ma anche sul campo dell’immaginario, conseguenza di una dualità costante: politica (metà filo-capitalista, metà filo-comunista), etnica (protagonista di origine franco-vietnamita), culturale e anagrafica della serie stessa (prodotta dalla statunitense HBO e girata dal sudcoreano Park Chan-Wook, riempita di stilemi hollywoodiani e tratta da un testo in lingua inglese scritto da un autore vietnamita).
Ma una battaglia che si combatte sul campo dell’immaginario, significa un’identità che si combatte sul campo dell’immagine. Allora, oltre alla pellicola, che inaugura sempre ogni episodio, il cinema emerge non solo come habitus legittimante (medium di provenienza del regista, riconoscimento o innesco autoriflessivo) ma anche e soprattutto come medium di riferimento, come occhio del Novecento, come linguaggio americano stilisticamente determinato (a cui il protagonista si rifà costantemente nel suo racconto), come sintomo occidentale che fagocita realtà per sovraprodurre immaginario. E in questo si gioca parte del discorso memoriale.
È proprio il cinema – nel momento in cui il protagonista viene coinvolto in una produzione come consulente vietnamita (un ruolo politico, ci dice questa serie) – che mette in crisi il personaggio, facendogli emergere traumi e incapacità di distinguere finzione da realtà. Ma qual è il motivo? La crisi nasce dalla capacità di materializzare cose che non ha vissuto in prima persona? Dal forte mimetismo degli attori? O dalla poca affidabilità di queste regole sottili?
Quando il protagonista chiede a uno dei personaggi interpretati da Robert Downey Jr. – in scena con quattro ruoli differenti, macchiette e maschere, varianti americane polarizzatissime – come mai al congresso interessa così tanto un “filmaccio viet-sploitation”, lui risponde che “i film sono importanti” nella loro capacità di mostrare le malefatte mantenendo il controllo, ripulendole, controbilanciandole con l’elogio dell’eroe onesto, ovvero: con il cinema ci si batte sul campo dell’immaginario e questo, dice, è “la forza di questo paese”.
Ogni racconto ha un peso identitario e le comunità partecipano alle immaginazioni – Benedict Anderson direbbe proprio che le comunità, come i nazionalismi, esistono proprio in quanto immaginate – e questa serie ce lo materializza. “Non esiste memoria culturale capace di autodeterminarsi: essa deve necessariamente fondarsi su mediatori e politiche mirate”, nello stesso modo con cui lo ricorda Aleida Assman, anche Il simpatizzante mostra che “nella trasformazione della memoria individuale, in sé legata al vissuto, in memoria culturale, in sé artificiale, è insito il rischio della distruzione, della parzialità, della manipolazione e della falsificazione della sua autenticità”.
Non resta che riscrivere, rivivere, ripartire. Ma soprattutto reimmaginare.