The Big Cigar: quando la realtà imita il cinema

 
 

Cos’hanno in comune il leader del Black Panther Party Huey P. Newton e il noto produttore cinematografico Bert Scheinder, a cui si devono alcuni dei capolavori della New Hollywood quali Easy Rider di Dennis Hopper, Cinque pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin di Bob Rafelson, L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich e il documentario sul Vietnam Hearts and Minds di Peter Davis? Apparentemente nulla, in realtà una rocambolesca quanto avventurosa cooperazione in nome di comuni ideali rivoluzionari di cui ognuno a proprio modo è stato interprete e rappresentante, che la miniserie AppleTv+ The Big Cigar ricostruisce in un racconto tra il drammatico e il guascone dalle grandi aspettative in parte tradite.

Basata sull’omonimo articolo apparso su Playboy nel 2013,  a firma di Joshuah Bearman (già autore del reportage alla base di Argo di Ben Affleck), sviluppata da Jim Hecht e prodotta tra gli altri da Don Cheadle – qui alla regia dei primi due episodi dopo il folgorante esordio Miles Ahead (2015) – The Big Cigar lavora su più piani narrativi senza mai però trovare il modo efficace di giocare le proprie carte migliori.

Newton, braccato dalla polizia dopo un’ingiusta accusa di omicidio, fugge a Cuba sotto copertura di una finta produzione cinematografica organizzata da Scheinder, un episodio realmente accaduto che ha dell’incredibile e offre un’interessante spunto metalinguistico sulla messa in scena di una messa in scena. Giocando sullo stile e l’immaginario hollywoodiano più popolare degli anni Settanta, la serie ribalta il tradizionale assioma del cinema che copia la realtà proponendo una riflessione opposta sull’influenza del mezzo filmico sul quotidiano. Ecco che il modo di dire “sembra un film” è da prendere alla lettera, in un patto con il pubblico che si manifesta già dalle prime scene. La forza persuasiva del cinema, capace da sempre di modellare l’immaginario collettivo e individuale è qui svelata nell’illusorietà alla base del suo processo creativo. Un trucco, un artificio che anche se svelato non perde la sua fascinazione, perché basata sulla complicità dello spettatore che sta al gioco per il piacere di vedere proiettate fuori da sé le proprie fantasie, sogni, paure, in un atto di condivisa esibizione liberatoria.

In The Big Cigar il confine tra realtà e finzione è sottile, mai netto ed esplicito. Un costante travisamento dei due piani che confonde e stordisce ma in definitiva riesce nel suo intento di trasporre gli intenti rivoluzionari di un’ideologia come quella delle Pantere nere e di un’intellettualità anch’essa critica verso il sistema come quella della controcultura nazionale di cui la New Hollywood è stata una delle principali espressioni. L’idea però resta solo uno spunto, non adeguatamente approfondita lungo l’arco del racconto, che preferisce concentrarsi maggiormente sulla ricostruzione degli eventi, in una sorta di Stangata birazziale che non va oltre i canoni del genere. Un prodotto che se da una parte contribuisce a diffondere un’immagine equilibrata delle Pantere nere, trattandone con dovuta attenzione le questioni ideologiche più delicate, oggetto ancora oggi di annose discussioni etiche, dall’altro non fa che perpetrare un modello rappresentativo del rapporto bianco/nero tipico di Hollywood.

Se Scheinder è la grande mente ideatrice, Newton e i suoi non sono che gli esecutori, trascinati loro malgrado negli eventi in una relazione di pura dipendenza d’azione, quasi privi di una propria autonomia decisionale. Certo l’intento di portare in scena la cooperazione tra bianchi e neri per una buona causa comune è senza dubbio un messaggio importante di cui The Big Cigar si fa veicolo, ma ciò non basta a superare una visione stereotipata della storia nazionale che ancora affligge Hollywood e buona parte della popolazione americana.

Raccontare episodi realmente accaduti, ponendo il personaggio bianco al vertice gerarchico del gruppo protagonista, non fa che ribadire una visione e interpretazione deliberatamente distorta e faziosa del passato comune e dunque del presente. Come a dire che, volenti o nolenti, senza i bianchi gli afroamericani non avrebbero potuto raggiungere quello status quo che costituisce l’ancora imperfetta condizione odierna di questa minoranza etnica. La realtà è ben più complessa ma l’industria dell’intrattenimento americana ancora fatica ad accettarla, preferendo non guardare e non ascoltare le voci disturbanti che dichiarano anche il contrario; come l’efficacissimo Judas and the Black Messiah di Shaka King, che ripercorre la persecuzione del portavoce di Chicago del Black Panther Party Fred Hampton per mano della polizia federale, disposta ad ogni sotterfugio per mettere a tacere le figure scomode all’ordine costituito. Episodi simili sono sì presenti nella serie dedicata a Newton, ma sono parentesi brevi e sporadiche che fanno da contorno alla vicenda centrale, quasi a non voler apparire troppo critici e rendere così il prodotto più appetibile a un pubblico anche non schierato.

Tutto risulta così macchiettistico e caricaturale: la goffaggine del produttore e del collega Steve, capaci però nei momenti più seri di manifestare grinta e determinazione dettate da un ostentato e pedante idealismo, o l’alterità sdegnosa di Newton, che nasconde una fragilità interiore accennata ma mai adeguatamente approfondita nei numerosi flashback che delineano il carattere del personaggio. E ancora, i conflitti tra i rappresentanti delle varie correnti interne al partito, bisticci dettati quasi più da una smania di apparire che da diverse visioni e ideali, o le figure secondarie degli agenti-hippies e dei militanti neri così rigidamente costretti dalle loro convinzioni da risultare quasi parodistici.

Certo, la serie è “raccontata dal punto di vista di Hollywood”, ma di questa not New Hollywood c’è davvero bisogno?

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