Eric: perdersi a New York negli anni ‘80

 
 

Prima che il sindaco Rudolph Giuliani “ripulisse” New York dalla criminalità con la politica della “tolleranza zero”, la Grande Mela negli anni ‘80 non doveva essere un grande posto dove vivere. Come riportato da un’analisi del sito del Dipartimento di Giustizia americana “un totale di 1.821 omicidi furono registrati dal Dipartimento di Polizia di New York nel 1980, 69 in più rispetto al 1979. Il tasso di omicidi per 100.000 residenti nel 1980 era del 25,8, collocando New York al settimo posto, confrontando le 10 città più grandi della nazione” e, sempre nel 1980 “il 51% degli omicidi era avvenuto all’aperto, rispetto al solo 43,8% del 1976”.

Un altro report del Dipartimento di Giustizia riporta poi come “nel corso del 1985, il Registro ha ricevuto 17.232 segnalazioni di bambini scomparsi dallo stato di New York. Di questi, il 30,1% proveniva da New York City, il 28,4% dalla periferia di New York City e il 41,5% dal resto dello Stato”. Praticamente più di un bambino su due di quelli che scomparivano nello Stato viveva nella capitale mondiale della Finanza.

È in questo contesto, restituito con grande maestria dalla costumista Suzanne Cave (al lavoro anche su Black Mirror), così come da alcune scelte di montaggio ammirabili e dalla accurata selezione musicale, che si svolge  Eric, miniserie di produzione inglese, con protagonisti i superbi Benedict Cumberbatch e Gaby Hoffman, coppia imperfetta che vede scomparire il figlio colpevolmente lasciato andare, per una volta, a scuola a piedi da solo.

Per ritrovarlo, il padre, burattinaio di successo per la televisione, pensa che l’unico modo sia dare “vita” al pupazzo Eric, ideato dal bambino. Riuscirà a ritrovarlo nella città che non dorme mai, tra milioni di persone e in un contesto complesso come quello descritto?

Al netto della bravura degli interpreti, comprimari compresi, Eric però mette troppa carne sulla griglia e, nel tentativo di raccontarci troppe cose, finisce per perdere il fuoco dalla storyline principale, con il risultato finale di farci interessare maggiormente al destino professionale ed umano di coloro che ruotano attorno alla vicenda che dovrebbe essere al centro di tutta la narrazione. Ancora una volta, poi, l’aspetto visivo, al netto dell’apprezzabile lavoro fotografico di Benedict Spencer, è appiattito secondo le linee guida della piattaforma fondata da Reed Hastings e Marc Randolph, che rendono ogni produzione Netflix, film o serie tv che sia, uguale a tutte le altre. 

Se, infine, come dice a un certo punto il detective Cassie, “è facile perdersi in questa città” e, come sentenzia uno dei suoi abitanti,  “se scompari per molto a New York, sei nel fondo della baia”, lo stesso potrebbe valere per noi spettatori di questa serie. Eric affascina e ci costringe a perderci, appunto, in un vortice narrativo in grado di inghiottire le vite dei protagonisti, messi a nudo da ipocrisie personali e sociali, ma al tempo stesso si perde narrativamente e fa smarrire la bussola anche a noi che guardiamo.

Niente di grave s’intende, le visioni brutte sono altre, però sicuramente un’occasione persa dopo una partenza decisamente convincente.

Indietro
Indietro

Enzo Jannacci: l’avvenire è un buco nero in fondo al tram

Avanti
Avanti

The Big Cigar: quando la realtà imita il cinema