Clerks III: la regola della trilogia
Le regole sulle trilogie le aveva già tracciate il compianto Wes Craven in Scream 3 (che, manco a dirlo, ospitava un cameo di Jay e Silent Bob, il duo di pusher anti-eroi presentato al mondo con il primo capitolo di Clerks, nel 1994). “Il primo film decide le regole, il secondo le piega, il terzo le dimentica.” A detta di Craven, il terzo capitolo di una trilogia ha il compito di risemantizzare il passato, stravolgere il presente e tutti gli eventi a venire con soluzioni inedite, inaspettate e rivelazioni spiazzanti.
Certo, si può obiettare che Craven facesse riferimento principalmente alle grandi trilogie horror e sci-fi (in Scream 3 vengono citati Star Wars e Alien come esempi eccellenti), ma questo vademecum può essere utile anche per analizzare il lavoro di Kevin Smith, un cineasta “nerd” che certe regole le ha masticate e assimilate durante tutta la sua multiforme carriera. Una carriera in cui è passato dalle commedie all'horror, non trascurando mai la sua passione principale, i fumetti, e firmando alcune delle storie più “dark” di Daredevil, Spider-Man e Batman. Storie decisamente spiazzanti che affrontano temi come l’abbandono, gli abusi psicologici, lo stupro e, inevitabilmente, la morte.
Ecco, se pensiamo alla saga di Clerks e alle regole d’oro di Wes Craven, si scorge un fil rouge abbastanza nitido. Il primo capitolo, che è anche il lungometraggio di esordio di Kevin Smith, è diventato un cult assoluto nell’immaginario cinefilo più trasversale. Clerks è una commedia low-budget in bianco e nero (scorrettissima, ma con un cuore ben visibile), un occhio al buco della serratura di un tipico convenience store del New Jersey. Una “giornata tipo” scandita dai dibattiti esistenziali di Dante Hicks (Brian O’Halloran) e Randal Graves (Jeff Anderson), le volgarità di Jay (Jason Mewes) e le mimiche di Silent Bob (Kevin Smith, proprio lui). Personaggi improbabili e al contempo più che realistici, dialoghi grotteschi, esilaranti e dai risvolti profondi, una colonna sonora che è un compendio perfetto di grunge e post-hardcore: tutti elementi che fanno di Clerks la fotografia perfetta di un’America frustrata, confusa e risucchiata dal feroce sistema post-post-capitalista degli anni ‘90.
Se Clerks funzionava perfettamente come episodio a sé stante, quei personaggi così ben definiti sembravano chiedere a gran voce nuove vite transmediali. Ed ecco che, oltre ai fumetti, a una serie a cartoni animati e ai videogiochi (non sapremo mai se sia stata l’anima “nerd” di Smith o la spirale produttiva ad agire), Kevin Smith finisce per confezionare uno spin-off (Jay and Silent Bob Strike Again, 2001) e un seguito (Clerks II, 2006). Da buon secondo capitolo, il film “piega” le fondamenta del suo immaginario, che da bianco e nero si colora di un pop sfrenato (un fuoco a colori che squarcia il grigio da “security cam”), abbandona l’underground e abbraccia un look frizzante e decisamente più mainstream. La formula del sequel è la stessa della sua matrice, ma più esuberante e strabordante: Smith fa timido sfoggio di un budget maggiore cercando di non scendere a compromessi nella scrittura e inciampando nel tentativo di far evolvere i suoi amati personaggi. L’attrazione fatale tra Dante e Becky (Rosario Dawson) trasporta inevitabilmente i nostri anti-eroi fuori dall’apatia tossica dei white guy americani, tracciando un orizzonte emotivo meno disforico (e più prevedibile).
Dopo le incursioni per die-hard fan di Jay & Silent Bob’s Super Groovy Cartoon Movie! (2013) e Jay & Silent Bob Reboot (2019), oggi assistiamo all’uscita di Clerks III, un film pensato tra il 2013 e il 2017 e riscritto completamente dopo l’infarto che ha colpito Kevin Smith durante un suo spettacolo di stand-up. Un film che ha avuto una limitatissima uscita in sala e che oggi esce in streaming su Netflix. Basterebbe questo per notare come il mondo da VHS rappresentato nel primo capitolo sia stato distrutto e come questo film si rivolga a un pubblico meno esteso, di veri aficionados. E pensando al gioco di Craven, vale la pena chiedersi in che modo Clerks III dimentichi le regole del primo e stravolga la mitologia di partenza con retroscena inaspettati.
Rivolgendosi a un pubblico che ha masticato e assorbito l’universo di Clerks con tutte le sue citazioni-allusioni e gli easter egg, il terzo capitolo ricuce le promesse col precedente configurandosi come un mondo riconoscibile e allo stesso tempo orientato a una ristrutturazione del linguaggio e della narrazione. Dante e Randal gestiscono il (ricostruito) Quick Stop come da copione, ma qualcosa è cambiato nel tono della loro everyday life sospesa e monotona. Scopriamo che Becky (incinta, così come l’avevamo lasciata in Clerks II) è stata uccisa da un pirata della strada, un evento che ha violentemente sottratto a Dante la prospettiva familiare sfiorata nell’episodio precedente. A scombinare gli equilibri con nuovi e più tetri traumi, si aggiunge l’infarto di Randal che, sopravvissuto, decide di rimettere in prospettiva la sua esistenza girando un film sulla sua vita. Un film che si rivelerà essere nient’altro che il Clerks originale.
Più “meta” di così (ohibò, ancora echi di Craven) sono le palesi ispirazioni a tragedie extra-diegetiche, come la morte di Laura Spoonauer (Caitlin Bree nel primo Clerks ed ex moglie di Jeff Anderson) e l’infarto di Smith. Clerks III è un’operazione nostalgica che diventa ampio specchio di (auto)biografie, una sorta di dichiaratissimo memento mori che vuole essere il bilancio di una vita, più che di una saga.
È proprio la disforia l’elemento risemantizzante che veicola il terzo capitolo, dalla scelta di far risuonare Welcome to the Black Parade dei My Chemical Romance nell’incipit all’esplorazione di luoghi molto più intimi e oscuri, quasi come se Kevin Smith tornasse a sceneggiare uno dei suoi fumetti. E in questo processo, paradossalmente, sono proprio i momenti classici del “format” a risultare meno spontanei, quasi macchinosi. Come se il film tendesse visceralmente verso un requiem, zavorrato dall’obbligo di restituire ai fan la formula di sempre. Il risultato è ibrido e a tratti straniante, soprattutto quando Smith incede verso la malinconia incorniciando il tutto con gag spesso tiepide e una linea comica (incarnata dai personaggi di Elias e Blockchain, interpretati da Trevor Fehrman e Austin Zajur) che ambisce al grottesco senza raggiungerlo.
Autoreferenziale per questioni di cuore, ma palesemente devoto a una causa “altra” (e decisamente più alta), Clerks III si configura come la chiusura di un cerchio piuttosto definitiva. Se l’originale resta un cult che può ancora ambire a un pubblico ampio e trasversale, questo terzo capitolo resta assolutamente confidenziale. Per comprendere meglio dove si pone Clerks III in una proposta streaming sempre più bulimica, basterebbe ascoltare la voce di Smith nei titoli di coda, quando decide di rivolgersi direttamente al pubblico per ringraziarlo di essere rimasto al suo fianco fino alla fine. Gli spettatori diventano un gruppo di amici fidati ai quali consegnare il tradimento del rito (o quasi), definendo un target ristretto ai quali il regista non deve spiegare o giustificare alcunché. Al centro di tutto, le interpretazioni di Brian O’Halloran e Jeff Anderson, decisamente più tensive e drammatiche, coadiuvate dai fidi (ma più rigorosi) Jay e Silent Bob (che Smith sfrutta per un’ulteriore sferzata meta-testuale).
In una carica nostalgica esagerata che oggi sembra definire un vero e proprio genere, Clerks III si spoglia del cinismo archetipico verso l’accettazione del cambiamento. E se anche finisce per accartocciarsi su sé stesso, in quanto anti-celebrazione generazionale, il suo merito resta quello di abbandonare le redini della narrazione verso la fine che deve compiersi. L’unica fine possibile.