Il Cacciatore: politica, entertainment e TV di qualità

 
 

Liberamente tratto dal memoir Cacciatore di mafiosi (2008) di Alfonso Sabella sul suo operato come sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo negli anni immediatamente successivi alle stragi di Capaci e via D’Amelio, Il cacciatore ripropone le formule e gli schemi del genere “mafia movie” combinandoli con quelli della tv di qualità delle produzioni internazionali pensati per le grandi piattaforme. Le tre stagioni, andate in onda su RaiDue dal 2018 al 2021 e attualmente su Amazon Prime e RaiPlay, sono una coproduzione tra RaiFiction, Cross Production e Beta Films. Presentando la seconda stagione, l’allora direttrice di RaiFiction Eleonora Andreatta aveva sottolineato questa doppia dimensione della serie: pensata per RaiDue, “una rete che ambisce ad avere un linguaggio internazionale, in linea con la migliore serialità che viene dall’estero, e contemporaneamente per il mercato internazionale”. Francesco Montanari, che interpreta il magistrato protagonista Saverio Barone, dava, nel corso della stessa presentazione, una definizione particolarmente rivelatrice del tentativo de Il cacciatore di tenere in equilibrio la tradizionale missione educativa della televisione pubblica e nuovi modelli seriali: “Un prodotto di entertainment sui grandi uomini della nostra storia”. Lo stesso Montanari rappresenta questa coesistenza di modelli, passando dal ruolo criminale del Libanese di Romanzo criminale (2008-2010), una produzione Sky Italia, a quello di rappresentante della legge, seppure con molti lati oscuri e un desiderio di autoaffermazione prima che di giustizia, di una produzione della televisione di Stato.

Ne Il cacciatore, il modello di serialità della tv pubblica caratterizzato da drammi a sfondo sociale con finalità educativa si ibrida, grazie anche alla legittimità culturale di cui le storie di mafia hanno sempre goduto nella cultura italiana, con quella che è stata individuata come la “terza via” delle produzioni per piattaforma e che si è aggiunta, negli anni, ai due modelli divergenti Rai-Mediaset (Barra e Scaglioni, 2015, p. 48). Le tre stagioni si caratterizzano per un protagonista anti-eroe, che, diversamente dal Cattani de La piovra, non assurge al martirio, per una rappresentazione esplicita ed eccessiva della violenza, un gusto per il dettaglio, anche retro, nella ricostruzione degli anni 90 e, pur nella chiara divisione tra buoni e cattivi, un continuo rispecchiarsi delle due dimensioni nella costruzione psicologica dei personaggi. Lo stesso Barone, nel denunciare un suo superiore corrotto prima di entrare nel pool, commenta “Io ero come lui, volevo il suo posto”.

A livello formale, la serie adotta un’estetica pop con un montaggio serrato alternato a improvvisi fermo-immagine con scritte invasive in sovraimpressione per identificare e inchiodare ai propri crimini i mafiosi, che, a differenza dei magistrati, mantengono i nomi veri. Un’ulteriore costante formale sono le ripetute, spettacolari riprese panoramiche dello spazio urbano di Palermo ma anche dei paesaggi siciliani, sia della costa che dell’interno, con evidente combinazione della funzione narrativa di descrizione dell’ambiente e tematizzazione del reciproco controllo crimine/legalità (una costante da A ciascuno il suo (1967) in avanti) a quella di promozione turistica della regione. Il cacciatore continua, dunque, quella dialettica tra politica e intrattenimento che Dom Holdaway ha individuato come tipico del “mafia movie” (2016, p. 449). 

I ventotto episodi della serie smontano e rimontano il libro di Sabella e seguono le indagini che portano il magistrato Barone, l’ultimo arrivato nel pool antimafia di Palermo, agli arresti di Leoluca Bagarella (stagione 1), Giovanni Brusca (stagione 2), Vito Vitale e Pietro Aglieri (stagione 3, con l’inserimento dell’episodio spagnolo della caccia a Cuntrera). I capitoli dell’opera del magistrato, ricchi di riferimenti letterari e cinematografici a narrazioni di mafia, cambiano ordine e importanza nella trasposizione televisiva, con il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo che viene a costituire il filo rosso delle prime due stagioni e diventa la vera ossessione di Barone, destinata a tramutarsi in un senso di morte e fallimento così pervasivi da portare anche alla fine del suo matrimonio con Giada e alla rinuncia di una famiglia. Alla narrazione di Sabella, viene infatti aggiunta la dimensione privata dei personaggi: sia dei magistrati che dei mafiosi si indaga anche la sfera dei sentimenti e degli affetti, mostrando il lato umano anche del male, o, per dirla con un’altra espressione, la sua banalità. L’amore di Leoluca Bagarella per la moglie Vincenzina, il rapporto tra i due fratelli Brusca e il legame sentimentale del minore dei due, Enzo, con l’aspirante cantante Maria, sono solo alcuni esempi di linee narrative che ritraggono la vita di chi, tradizionalmente, siamo abituati a pensare senza sentimenti. E se, in questi casi, come per i magistrati, l’elemento femminile continua ad essere l’elemento di vulnerabilità per i personaggi maschili, una costante che ha portato Emiliano Morreale a definire il “mafia movie” come “melodramma per maschi” (2020, p. 56), nella terza stagione, i legami omosociali tra Pietro Aglieri e i suoi protetti introducono una nuova componente narrativa da melodramma tra maschi.

Il personale, tuttavia, ha smesso di essere politico. I molteplici riferimenti di Sabella alla politica, dal processo Andreotti ai governi del Polo delle Libertà passando per l’esperimento di un diretto intervento politico mafioso con la formazione Sicilia Libera, sono ridotti e contenuti nella serie che punta più sull’allusione che sulla denuncia. Significativo è anche come l’epilogo, che nella narrazione di Sabella viene a costituire un rovesciamento di ruoli rispetto al titolo, con il magistrato che diventa preda delle decisioni politiche, sia rielaborato nella serie, in cui è Barone a voler lasciare il pool per riprendersi la sua vita. Nel meccanismo seriale questo comporta l’introduzione di un nuovo “cacanidu” (l’ultimo arrivato), la magistrata Paola Romano, cui spetta di raccogliere l’eredità di Barone, arrestando Provenzano.

Decisamente più amara è la conclusione del libro di Sabella, “in qualche modo costretto ad andar via da Palermo” (2008, p. 248) e che, una volta approdato all’amministrazione penitenziaria a Roma, si vede sopprimere il suo ufficio per la sua decisa contrarietà all’introduzione della “dissociazione”. Il metodo della “terra bruciata” che dà il titolo al primo capitolo in cui il magistrato spiega la sua tecnica di progressivo isolamento della preda, viene adesso utilizzato contro di lui, in un ennesimo “controsenso siciliano” di stampo pirandelliano: “Siamo proprio sicuri che quello del predatore che diventa preda, del cacciatore . . . cacciato sia veramente un paradosso?” (2008, p. 259). L’accentuazione della dimensione personale nella narrazione televisiva è funzionale anche all’oscuramento della politica come responsabile ultima del rovesciamento dei ruoli tra cacciatore e cacciato: Barone non è mai preda dello Stato, ma sempre della mafia e dai suoi capi, come Vito Vitale nella terza stagione, o, nella prima stagione, dell’ambiguo Lucio Raja, amico del magistrato negli anni dell’adolescenza e ora al servizio dei boss.

 

Riferimenti bibliografici

Barra, L. e Scaglioni, M. (2015), “Saints, Cops and Camorristi. Editorial Policies and Production Models of Italian TV Fiction”, Series. International Journal of Tv Serial Narratives, Volume I, Spring, 65-76.
Holdaway, D, (2016), “Boss in sala. Cultural Legitimacy and Italian Mafia Films”, Comunicazioni sociali, n. 3, 445-454.
Morreale, E. (2020), La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019), Donzelli, Roma.
Sabella, A. (2008), Cacciatore di mafiosi. Le indagini, i pedinamenti, gli arresti di un magistrato in prima linea, Mondadori, Milano.
Risorse online consultate
Conferenza stampa di presentazione della seconda stagione, https://www.youtube.com/watch?v=MJCRSWdIbQw
Il cacciatore, sito ufficiale su RaiPlay, https://www.raiplay.it/programmi/ilcacciatore
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