La corruzione: liberi di perdere
«Che cosa ha da dire un regista come Mauro Bolognini al cinema contemporaneo, alla cultura dell'Italia di oggi?», si domandava Alberto Pezzotta aprendo la monografia sul regista toscano curata con Pier Maria Bocchi nel 2008. Oggi, quasi un anno dopo le celebrazioni del centenario tenutesi lo scorso giugno a Pistoia, l'interrogativo è più pertinente, se non urgente, che mai. Di anno in anno assistiamo ad una regressione estetica e politica del nostro cinema e ritrovare immagini rivoluzionarie come le sue potrebbe solo far bene allo spettatore presente e futuro. Immagini come quella che chiude La corruzione, film del 1963 prodotto da Alfredo Bini e distribuito nella sale da Titanus. Un'opera imprevedibile, in quella fase del percorso del suo autore, e imprevista, almeno stando alla reazione della critica coeva che lo accolse tiepidamente senza comprenderne la sostanza.
Non capirono l'ultima scena, appunto, dove alla disperazione del protagonista ormai conscio del suo destino si alterna il ballo di gruppo dei suoi coetanei in una balera dalle atmosfere quasi surreali. Stefano ha appena scoperto che suo padre è un mostro in molti sensi e che lui non potrà fare altro che diventarne il successore, omologandosi a un sistema nei confronti del quale ha mostrato disprezzo per l'intera pellicola. Infatti il tentativo di dialettica contro l'ideologia capitalista del genitore editore nulla ha potuto contro la leva del potere. In una gita in barca tesissima, che segue di pochi mesi quella però più angosciante de Il coltello nell'acqua (1962) di Roman Polanski, si dipana il dramma di un confronto generazionale, filosofico e di conseguenza politico. Stefano ha lasciato il collegio col desiderio di prendere i voti ma l'uomo che gli ha pagato gli studi e costruito una fortuna aziendale, che qualcuno dovrà ereditare, non ha nessuna intenzione di permetterglielo.
Così papà Leonardo gli propone un fine-settimana sul lago, loro due soli, ma ovviamente l'inganno è presto svelato. Si unisce ai due uomini Adriana, con tutta evidenza amante del più anziano, chiamata a convincere il più giovane di quanto sia meglio godersi la vita materiale piuttosto che rinchiudersi fra quattro mura in preghiera. Il piano si dipana semplicemente perché Stefano non sa nulla del mondo e, dopo una leggera resistenza, si fa sopraffare dal fascino della ragazza. L'incontro dei corpi in cabina, come già segnalato da Bocchi e Pezzotta, e Filippo Sacchi prima di loro, potrebbe essere «la più bella, la più intensa, la più lirica scena erotica del nostro cinema». Ma quel che non si è detto è quanto sia struggente e teorica la destrutturazione dell'immagine in frammenti specchiati di questo abbraccio, tale per cui Adriana e Stefano sembrano non toccarsi mai veramente.
Nel complesso il film anticipa certe atmosfere del cinema contestatario pur rimanendo, un po' ma non troppo come Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci, dalle parti dell'indagine psicologica. Diciamo che La corruzione sembra fare da ponte fra quell'incredibile radiografia della modernità che è Il posto (1961) di Ermanno Olmi e futuri sprazzi di lucidità che l'industria cinematografica italiana permetterà sempre più raramente. In questo, come in precedenti film di Bolognini, il potere è maschile ed è dispotico, fondamentalmente fascista, mentre il femminile si esprime nella sensibilità di uomini alla ricerca di un pur piccolo spazio di affermazione dell'individuo nella collettività massificata prosperante. Lo Stefano interpretato da Jacques Perrin, come il bell'Antonio di Marcello Mastroianni nell'omonima pellicola (1960), è sì perdente ma integro nella sua diversità. I personaggi di Bolognini mantengono sempre una loro libertà profonda.