La legge di Lidia Poët - La via italiana al period crime
Un limite della serialità televisiva italiana è l’incapacità di costruire brand partendo da zero, ovvero senza rifarsi a testi preesistenti o personaggi realmente esistiti. Si potrebbe obbiettare dicendo che si tratta di un limite solo sulla carta, visto che questa mancanza di narrazioni “originali” non ha impedito alla serialità italiana di imporsi come serialità di qualità anche a livello internazionale.
Anche La legge di Lidia Poët, miniserie Netflix prodotta dalla Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibilia, si rifà a del materiale narrativo precedente, quello che ha a che fare con la realmente esistita Lidia Poët (interpretata da Matilda De Angelis), la prima donna avvocato d’Italia. Attorno a questa figura la serie intreccia delle storie evidentemente immaginarie, che sembrano avere come scopo quello di dare vita ad un’investigatrice seriale dall’anima pop, una sorta di Enola Holmes italiana.
Sullo sfondo della Torino di fine Ottocento, la storia ruota attorno al tentativo di Lidia Poët di ribaltare la sentenza della Corte d’Appello che le impedisce di esercitare la professione di avvocato: per farlo cerca di dimostrare agli occhi della legge il proprio talento, assumendo la difesa di individui ingiustamente accusati di omicidio per poi indagare e consegnare alla legge il reale colpevole. Diversamente dalla maggior parte delle serie Netflix, La legge di Lidia Poët è una cosiddetta serie serializzata, che presenta quindi un susseguirsi di episodi autoconclusivi, sullo sfondo dei quali prende forma anche una trama orizzontale. L’anthology plot degli episodi è un classico whodunit e riguarda i casi sui quali Lidia Poët si ritrova ad indagare, spesso fin troppo banali per catturare il reale coinvolgimento dello spettatore; il running plot, invece, ha a che fare con la vita famigliare di Lidia e con un mistero che vede coinvolto il personaggio del giornalista Jacopo Barberis (Eduardo Scarpetta) e un gruppo di anarchici.
Proprio l’estrema semplicità della maggior parte degli enigmi al centro delle indagini di Lidia è il principale problema di questa serie, che invece sul piano dei production values dimostra lo sforzo messo in atto dalla Groenlandia per ricreare la Torino di fine Ottocento, con le sue strade vivaci e la sua nebbia da noir. Nel corso dei sei episodi diretti da Matteo Rovere e Letizia Lamartire, Lidia giunge alla soluzione dei suoi casi non sulla base di un razionale raggruppamento di indizi, ma grazie all’intuizione, a un colpo di genio, ad una frase udita e interpretata alla luce degli eventi. Da un lato questa prassi, molto contemporanea, serve ad esaltare il genio della protagonista, dall’altra il minimalismo di molti di questi enigmi impedirebbe in ogni caso una risoluzione più razionale.
Questa semplificazione della materia narrativa sembrerebbe però funzionale a raccontare altro, qualcosa che alla serie interessa di più del talento investigativo di Lidia. Si tratta di raccontare una storia di autodeterminazione femminile, portata avanti in forme diverse dal primo all’ultimo episodio. Pur cadendo talvolta in un eccessivo didascalismo, La legge di Lidia Poët riesce bene a raccontare l’estremo gender gap di fine Ottocento e, più in generale, la volontà femminista di rivendicare la propria libertà. Questa riflessione si dà anche in chiave sessuale: Lidia Poët è un personaggio che vive una sessualità libera, alimentata dal desiderio e priva di condizionamenti, tratti che ne fanno una figura estremamente moderna. Ma il tema della rivendicazione femminile avviene attraverso molteplici livelli: il primo e più ovvio ha a che fare con Lidia, che cerca di mostrare la propria validità agli occhi del mondo; il secondo livello riguarda la nipote di Lidia, Marianna (Sinéad Thornhill) che vede in Lidia un modello da imitare per vivere la vita che vorrebbe a dispetto della volontà suoi genitori; il terzo e più interessante livello è quello che riguarda la sintesi di questa rivendicazione femminista all’interno dei singoli delitti su cui Lidia si ritrova ad indagare.
Quasi tutti i misteri della serie hanno origine proprio da questa spinta delle figure femminili a reagire contro i padri e i padroni e così Lidia diventa non solo agente che indaga, ma anche testimone di queste microstorie dalla portata universale. Questa lotta femminista, però, si estende ad una più generale lotta di classe, mai realmente tematizzata nella narrazione, ma sempre presente sottotraccia: si pensi solo alle due tipologie di ambienti maggiormente messi in scena nella serie, le sale sfarzose dei grandi palazzi da un lato, le strade lugubri e teatro della prostituzione dall’altro, che rappresentano i due estremi della gerarchia sociale. I delitti che la serie racconta hanno a che fare proprio con il divario sociale o con l’accumulo di potere da parte dei potenti a dispetto dei più sfortunati. In questo contesto, l’arma maggiore che Lidia sembra avere a disposizione è la capacità di saper guardare oltre la maschera, di scavare oltre i pregiudizi per rivelare la verità.