Marie Antoinette: ritratto sfocato di una regina
Forse, anzi quasi sicuramente, è stata I Tudors (2007-2010) a dare il via alla realizzazione di serie tv ambientate a corte: operazioni pop incentrate sulla rivalutazione e mitizzazioni delle principali figure delle monarchie europee. L’ultima arrivata, prodotta da Canal+ e ideata da Deborah Davis, è Marie Antoinette (Sky/Now), già rinnovata per una seconda stagione. Otto episodi che seguono cronologicamente la vita della prima delfina, e poi regina di Francia, dall’arrivo a Versailles, fino alla nascita del secondogenito, erede al trono.
La linearità della narrazione rallenta il ritmo, flebilmente scandito nei primi quattro episodi dal costante e inesauribile confronto tra Marie Antoinette (Emilia Schule) e Madame Du Barry (Gaia Weiss). Versailles è una gabbia dorata, una prigione per la giovane arciduchessa austriaca, giudicata e criticata dall’intera corte. Per lei – come per Caterina De Medici nella prima stagione di The Serpent Queen – il tempo porta consiglio, smussa le ingenuità fino a renderle acerbe virtù di donna di potere, più influente del proprio consorte. Toinette (così affettuosamente chiamata dai famigliari e dagli amici più stretti) cerca disperatamente la felicità, si rifugia nell’eccesso perché incapace, non solo per sua volontà, di adempiere ai doveri del ruolo di moglie.
Meno sfrenata ed euforica della sovrana messa in scena da Sofia Coppola, eppure sbiadita, tanto da rendere l’intera serie il ritratto corale di una famiglia, quella borbonica, spregiudicata e terrificante, assetata di potere e gloria. La sola voce della ragione, che, esattamente come i suoi nemici, perseguita la regina, è quella della madre, l’Imperatrice Maria Teresa (Marthe Keller) che si fa coscienza inascoltata e rigoroso ausilio per la sopravvivenza di un’austriaca al comando della Francia. Toinette non sarà al sicuro finché non darà alla luce il nuovo delfino. Ed è così che l’intera stagione gira attorno ai mancati rapporti sessuali tra i due coniugi, rimandati per l’inadeguatezza e la paura di Luigi XVI (Louis Cunningham), a cui tutto viene permesso, vista la posizione che ricopre, mentre il dito, ostinatamente, viene puntato contro la giovane sposa a cui vengono impartite continue lezioni di seduzione; da Du Barry, da Papa Roi (Luigi XV), dall’imperatore di Austria, da Yolande de Polignac.
Tutti i più celebri personaggi dell’epoca provano a prendersi la scena: spintonano e maltrattano la regina che dovrebbe essere dipinta come icona assoluta e che raramente ruba la scena e incanta gli spettatori – metaforici sudditi – che finiscono per l’essere inebriati ed affascinati dalla schiera di subdoli e agguerriti cattivi. La consapevolezza di Marie Antoinette non è sufficiente ad affermare il suo protagonismo, affannosamente tenta di districarsi tra personalità più complesse e folgoranti della sua. La bellezza non aiuta, la frivolezza, maestra di eleganza ad una corte che la regina dovrebbe modellare a sua immagine e somiglianza, non raggiunge l’affilatezza necessaria per diventare un’arma di seduzione. Il potere che ella arriva ad esercitare sul marito è più frutto dell’incapacità di lui che dell’astuzia di lei che mai si trasforma in femme fatale, neppure nella relazione extraconiugale con Fersen.
Marie Antoinette, manca di personalità, a tratti anche di veridicità storica – la datazione non coincide a pieno con la realtà –, di profondità narrativa e linguistica: poche vorticose panoramiche nelle scene oniriche, non sono sufficienti a reggere la piattezza registica di otto episodi da 60 minuti. Si tratta, in conclusione, di un prodotto mainstream, popolare e poco ricercato, per sguardi accondiscendenti e poco esigenti.