Meeting The Man: James Baldwin in Paris. Da (S)oggetto a Autore
L’interesse di James Baldwin per il cinema come mezzo in cui politica ed estetica diventano inscindibili è ben documentato nelle sue opere. Nei suoi romanzi, la sala cinematografica spesso compare come luogo di incontri significativi, come quello tra Giovanni e Guillaume ne La camera di Giovanni (1956). Nei suoi saggi, Baldwin si dimostra consapevole delle potenzialità del cinema e, proprio per questo, della necessità di analizzare le immagini cinematografiche come portatrici di istanze politiche che devono essere messe costantemente in discussione per smascherare i meccanismi del potere. Particolarmente nella raccolta The Devil Finds Work (1976), parzialmente tradotta in italiano come Congo Square (Fandango Playground, 2017), Baldwin analizza la mistificazione razziale e l’illusoria vittoria del Bene sul Male, sia nei prodotti più di consumo come L’Esorcista (1973) che in quelli, almeno apparentemente, più liberal, come La parete di fango (1958) e Indovina chi viene a cena (1967), entrambi di Stanley Kramer, o La calda notte dell’ispettore Tibbs (1967) di Norman Jewison. Baldwin fece esperienza in prima persona di cosa significava lavorare per Hollywood alla fine degli anni 60 quando scrisse la sceneggiatura per la biografia di Malcolm X che, tuttavia, venne messa da parte fino al 1992, cinque anni dopo la sua morte, quando Spike Lee la riprese in mano per il suo film, alterandola però a tal punto che gli eredi dello scrittore chiesero la rimozione del nome dai credits.
Girato da Terence Dixon nel 1970, nel pieno della guerra del Vietnam e a soli due anni dall’assassinio di Martin Luther King, Meeting the Man: James Baldwin in Paris ci mostra invece James Baldwin davanti alla macchina da presa, materia del documentario che il regista bianco ha ben chiaro in testa come debba svilupparsi. Lo vuole realizzare concentrandosi sullo scrittore, scindendo opera letteraria e attivismo politico, ed evidenziando il suo rapporto con la città dove aveva vissuto da esule per 22 anni. Arrivato con pochi soldi in tasca e con la sola certezza che, se fosse rimasto negli Stati Uniti, sarebbe morto, Baldwin diventa a Parigi uno scrittore di fama mondiale. È questo percorso letterario che Dixon vuole documentare. Tuttavia, Baldwin non è un soggetto inerme, non accetta di essere reso un mero oggetto di studio estetico e vuole dire la sua sul punto di vista che il film adotta, forse anche per attenuare quell’immagine troppo moderata di sé procuratagli dai suoi primi saggi contro la letteratura di protesta e dal suo romanzo bianco e omosessuale, il già citato La camera di Giovanni. Una reputazione che, nel radicalizzarsi dello scontro razziale in America, era diventata sempre più pesante da portare.
Ad un certo punto delle riprese, Baldwin smette di collaborare a quello che inizia a considerare come un progetto che silenzia la propria voce invece che amplificarla. Quindi, l’intervista di Dixon si trasforma progressivamente da semplice documentario su James Baldwin e sul suo rapporto con i diversi quartieri di Parigi in un dialogo serrato e polemico su come girare un documentario su un intellettuale afro-americano, una discussione di come i rapporti di potere tra bianchi e neri si traducano anche in uno sbilanciamento tra intervistatore e intervistato.
“I didn’t know how I lived”, “I didn’t know what I did”, “How I did it, I don’t know”: davanti a quella che percepisce come una curiosità morbosa, Baldwin si trincera sorprendentemente dietro ad un'auto censura della sua vita dei primi anni parigini. Nei pochi fotogrammi iniziali, prima che la collaborazione dell’intervistato salti completamente, “I don’t know” viene vertiginosamente ripetuto più e più volte. Il “non sapere” diventa così tutta la chiave di volta del documentario, il tropo che mette in crisi la vocazione documentaristica per l’oggettività, per la puntuale ricostruzione biografica, per la ricerca della verità e il necessario distacco dalla materia narrata. Lentamente, Dixon ammette di concedere terreno a Baldwin che “acconsente” ad essere ripreso nel quartiere algerino, “the Harlem of Paris”, proprio perché gli algerini sono gli afro-americani della Francia e lo hanno protetto dai pericoli della strada al suo arrivo nella metropoli. Lo stesso “non sapere” si estende anche alla sessualità di Baldwin, che, a differenza di altre occasioni o dei personaggi dei suoi romanzi, non si caratterizza qui esplicitamente come soggetto queer, anche se la macchina da presa veicola la tensione sessuale per gli uomini che incontra nel quartiere algerino.
Significativamente, a Piazza della Bastiglia, luogo simbolo della Rivoluzione Francese, Baldwin e il gruppo di studenti afro-americani che lo accompagnano prendono il controllo del girato. Ampliando quello che aveva definito come il “fardello della rappresentazione” razziale, qui Baldwin sembra invece provare quasi un entusiasmo alla Whitman nel rappresentare e nell’includere in sé tutti i prigionieri politici americani: “I could be Bobby Seale, I could be Angela Davis, I could be Medgar Evers”. La macchina da presa di Dixon inquadra Baldwin che si rifiuta di separare il suo essere scrittore dal suo essere militante: entrambi hanno come progetto comune la distruzione della prigione in cui il potere bianco li confina. Tuttavia, quando un uomo bianco cerca di buttare giù una prigione dove innocenti sono ingiustamente confinati, è un liberatore, quando la stessa azione la intraprende un Afro-americano è un selvaggio. Un’osservazione sul linguaggio, questa di Baldwin, di cui potremmo trovare innumerevoli esempi nella nostra contemporaneità, se pensiamo che i sopravvissuti afro-americani alla devastazione dell’uragano Katrina venivano definiti “looters” (“sciacalli”) perché provavano semplicemente a trovare cibo. Un bianco sarebbe stato definito con le stesse parole?
In un ulteriore passaggio concettuale, Baldwin identifica il suo secondino con il regista Dixon, che lo vuole imprigionare nel ruolo di scrittore ed ha già pronto lo svolgimento del documentario. Nello stesso modo in cui Baldwin viene a rappresentare tutti gli emarginati e gli esclusi dal “sogno americano”, Dixon incarna il modo di pensare occidentale che causa l’esclusione del diverso e che mette a rischio della vita una persona semplicemente per il coloro della sua pelle, un’altra osservazione con cui, nella sua banalità, dobbiamo ancora fare i conti. Bisogna quindi trovare interlocutori alternativi a Dixon e un luogo alternativo alle cartoline dei diversi quartieri di Parigi per poter parlare e finire il documentario.
La scelta di Baldwin, a cui Dixon si adegua, cade sul pittore Beauford Delaney, un altro artista afro-americano omosessuale espatriato, esponente di punta della Harlem Renaissance, una sorta di padre spirituale, a cui Baldwin si sentiva particolarmente legato e di cui aveva celebrato lo spirito di resistenza che lo aveva portato a compiere uno “splendido ed ostinato viaggio”, superando la sua dolorosa adolescenza in Tennessee. Effettivamente, già al momento del documentario, il pittore aveva iniziato da tempo una discesa nella malattia mentale che lo porterà alla morte nel 1979. Meeting the man è quindi un omaggio anche a lui e alla sua arte, in quanto la parte centrale si svolge nel suo studio, con Baldwin e i suoi interlocutori, giovani afro-americani che gli pongono domande sui suoi libri e sulla sua vita, che discutono circondati dai quadri di Delaney. Qui emerge il lato più istrionico di Baldwin, predicatore senza chiesa, impegnato in un quasi “call and response” con il suo limitato pubblico per arrivare alla profezia apocalittica finale, anche questa caratterizzata da un’inascoltata rilevanza per i nostri giorni: “tutti i diseredati della terra, che sia questo martedì o il prossimo mercoledì, distruggeranno le fondamenta di Londra, Parigi o Roma”. Si scaglia contro il Papa, che “prima o poi dovrà morire perché la Chiesa è criminale”, e contro l’Occidente bianco in genere che non può fare a meno di pensare alla salvezza delle persone di colore, quando sono queste a salvare l’uomo bianco.
Ed ecco gli ultimi cinque minuti del documentario, in cui, finalmente, secondo la voce narrante del regista, “Baldwin ha acconsentito a discutere l’equilibrio precario tra l’essere una figura politica e un artista creativo”. Effettivamente, era proprio questo equilibrio precario che il documentario voleva evitare, nelle certezze dei dati biografici e letterari dell’autore che, tuttavia, è riuscito a far prevalere la sua voce.