Pinocchio, ovvero lo spettacolo della Provvidenza: corpi senza sesso

 
 

L’archivio di RaiPlay mette a disposizione uno dei grandi lavori teatrali di Carmelo Bene, Pinocchio, ovvero lo spettacolo della provvidenza nella sua versione adattata per la televisione nel 1999, da un testo del 1961 che ha poi avuto diverse repliche e tre edizioni radiofoniche e una discografica. Il noto capolavoro di Carlo Collodi viene riletto dal genio caustico di Bene secondo i propri paradigmi linguistici, che ne hanno fatto uno dei massimi protagonisti della neoavanguardia teatrale italiana.

Pinocchio, ovvero lo spettacolo della Provvidenza mantiene il testo collodiano pressoché identico ma ne distrugge la valenza simbolica dei personaggi, esasperandone i dialoghi attraverso una continua mutazione della tonalità vocale. Tre degli elementi ricorrenti nella poetica del teatro beniano (la macchina attoriale, il degenere e l’ipercomico) sono presenti anche qui e proprio attraverso essi l’autore muta di segno il testo di riferimento.

In una messa in scena spoglia e tetra recita nella propria staticità cadaverica Carmelo Bene, che nei panni di Pinocchio esprime ancora una volta il suo essere macchina attoriale dotata di phoné (attraverso forzature sonore e vocali), mentre gli altri personaggi, quasi completamente burattinizzati, vengono interpretati da Sonia Bergamasco che recitando in playback rende ancora più straniante la mise en scène. La scelta di far interpretare tutte le altre figure da un’attrice ne crea spesso una rilettura quasi androgina (specie Mangiafuoco dichiaratamente femminilizzato), ma al tempo stesso viene sottratta qualsiasi appartenenza di genere per la rigidità burattinesca delle stesse, impressa da maschere che le desessualizzano.

Bene/Pinocchio (recitando senza maschera ma con il trucco) pare una figura costantemente abitata dal demone di una crudeltà libidica forzatamente tenuto a bada, pur risultando asessuato e ridotto alla staticità oggettuale, complice il collare con catena che ne frena la ferocia sessuale, pur richiamando al contempo pratiche sadomaso.

Il concetto di degenere, ovvero di non aderenza ad un genere teatrale definito, permea dall’inizio alla fine anche questa pièce passando senza soluzione di continuità dal solenne al parodico, dal tragico al comico. Il concetto di comico per Bene diventa ipercomico, ovvero superando la macchietta si immette direttamente nel corpus drammatico per congelarlo in un ghigno sospeso.

Anche in Pinocchio è possibile notare questo processo di congelamento tragicomico, attraverso una dilatazione sonora delle parole operata da Bene, il quale dichiara che il comico permane persino nel pornografico e la sua rilettura scorretta del testo collodiano è appunto estrema, esasperata e oscena, senza però che i corpi rappresentati possano avere una propria identità sessuale.

Corpi-manichini svuotati di qualsiasi senso e sesso, leggono meccanicamente le loro azioni invece di compierle, come avviene all’inizio per mastro Antonio e mastro Geppetto. Se si analizza attentamente il dialogo tra questi due personaggi (entrambi interpretati da Bergamasco), notiamo che Bene adotta un meccanismo schizoide in cui l’attrice interpreta contemporaneamente i due ruoli alternando le maschere. Lo stesso meccanismo lo troviamo nel suo primo film Nostra Signora dei Turchi, quando Bene interpreta due personaggi togliendosi e mettendosi una barba posticcia. Questa doppiezza schizofrenica è spesso presente nell’opera di Bene e in Pinocchio si incarna nel rigor mortis legnoso come definitiva scomparsa della carne attoriale.

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