Specchio segreto: candid camera tra decoro e vene surreali

 
 

L’idea alla base del fortunato programma Rai Specchio segreto, in onda per sette episodi settimanali nel 1964 e disponibile su Raiplay, è semplicissima ma al contempo articolabile: riprendere degli sconosciuti a loro insaputa per osservarne la reazione spontanea a determinati stimoli ambientali. Nella stragrande maggioranza dei casi in cui l’audiovisivo ha utilizzato questa metodologia d’indagine, propria della psicologia sociale, le situazioni in cui vengono a trovarsi gli ignari partecipanti sono sceneggiate in anticipo e attuate con l’ausilio di attori.

Il primo format televisivo di questo tipo fu lo statunitense Candid camera del 1949, da cui prese nome un macrogenere che sopravvive tuttora in varie declinazioni e media. Tra le produzioni televisive più recenti figura ad esempio il format israeliano Deal with It, in cui si chiede ad uno dei partecipanti di diventare complice degli autori. Anche nel cinema non mancano esempi di rilievo, come i due mockumentary satirici dedicati al personaggio di Borat, interpretato da Sacha Baron Cohen. In tutti i casi citati, e in una marea di contenuti amatoriali come i prank, l’intento degli autori è prevalentemente comico, sebbene basato sul principio hitchcockiano di suspense secondo cui lo spettatore sa più dei personaggi coinvolti nell’azione.

Il programma Rai condotto da Nanni Loy si discosta dal genere prevalentemente su questo versante, mediando l’intrattenimento puro con una serie di riflessioni sul materiale filmato. L’intento esplicito dell’operazione è indagare il sentire comune degli italiani piuttosto che deriderli, anche perché gli ignari protagonisti della trasmissione sono gli stessi che finanziano il programma tramite canone. Già la scelta lessicale di chiamare il programma specchio, a differenza dello statunitense camera, presuppone un differente approccio al materiale filmato: camera suggerisce una distanza fra osservatore e osservato, dunque un’oggettificazione del secondo, mentre specchio rimanda piuttosto all’identificazione dei due termini, all’autoreferenzialità dell’indagine.

L’etica professionale rispettosa è uno dei capisaldi della trasmissione, tanto che al termine di ogni puntata vengono valorizzati e ringraziati gli ignari partecipanti, e come conduttore Loy si mantiene sempre rassicurante, positivo e sobrio come si conviene a un presentatore Rai. Ci sono sketch puramente comici come quello grottesco in cui Loy interpeta un avventore al bar che inzuppa la sua brioche nel caffè degli altri, molti altri sono basati sulle relazioni di coppia, mentre nei pochi casi in cui si toccano temi divisivi come il mondo del lavoro il presentatore rimane stoicamente neutrale. Dal punto di vista dell’indagine sociale, ovviamente, il programma non ha il benché minimo valore. Per qualsiasi prodotto passi da un processo di montaggio vale l’assunto della meccanica quantistica per cui la realtà risulta dall’osservatore e non dall’osservato, da chi decide cosa mostrare e in che modalità piuttosto che dal materiale stesso.

La narrazione proposta dalla trasmissione è anch’essa diretta conseguenza dell’emittente statale che l’ha prodotta: la riaffermazione del mito degli italiani brava gente, semplice e di buon cuore, spontanea e caritatevole, sempre inquadrata in contesti urbani decorosi (Bologna, Milano, Roma). Sono nondimeno presenti interessanti guizzi di scrittura creativa surreale, come l’episodio in cui un attore finge di rubare in un centro commerciale e far ricadere la colpa sulla vittima di turno, o quello in cui si mette in scena la vendita di una donna di colore al mercato per verificare la reazione dei passanti, sketch poi replicato cinquant’anni dopo dalla testata online Fanpage. Sarebbe interessante dedicare altro spazio alla fascinazione per il genere candid camera e ipotizzarne l’origine (bias o altri processi cognitivi? pura e semplice scopofilia?) ma il punto imprescindibile rimane che, qualsiasi sia la risposta, riguarda l’osservatore e non l’osservato.

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