Un uomo vero: l’adattamento di Wolfe tra luci e ombre

 
 

Nell’incipit del romanzo del 1998 A Man in full di Tom Wolfe, il protagonista Charlie Croker viene descritto come una “sorta di Pecos Bill dai capelli biondi e ricci che, secondo la leggenda locale, aveva compiuto audaci imprese di forza [...] un uomo in pieno” (a Man in full appunto) a cui “non piacevano le zucchine, non piacevano le pere. A lui piaceva una ragazza che non aveva peli”. 
Un protagonista, magistralmente interpretato da Jeff Daniels, che all’inizio di questo adattamento, che sposta l’azione dalla fine del secolo allo stretto presente dei giorni nostri, quello del “Black Lives Matter” e della decentralizzazione del potere dalle mani del maschio bianco occidentale, troviamo steso su un tappeto come Jeffrey “The Dude” Lebowski nel film proprio del 1998 dei fratelli Coen, narratore post-mortem come Joe Gills in Sunset Boulevard o (non ancora) pronto a morire come Carlito Brigante nel film di De Palma che tre anni prima dell’uscita del romanzo di A Man in full aveva adattato, senza successo, Il falò della vanità, proprio di Tom Wolfe.
A Man in full, tradotto come Un uomo vero, è soprattutto (se non solo) lui, Charlie Croker, magnate immobiliare, colui che tutti vogliono far fuori o almeno screditare ma che come un toro del Jersey e come ex campione di football americano qual è, abbatte chiunque si trovi nell’arena in cui, mangiato dai debiti bancari, è costretto a combattere. 
Uno scontro affascinante che però perde di forza quando la narrazione della serie si sposta sul caso di Conrad Hensley, ragazzo di colore che colpisce un poliziotto bianco durante un violento arresto (Atlanta, dove si svolge la storia, è stata una della città dove è infiammata maggiormente la protesta del movimento “Black Lives Matter”) e per via della scelta, a differenza del romanzo, di depotenziare il personaggio di Harry Zale in favore di quello di Raymond Peepgrass.
La dimensione della mini-serie di sei episodi totali, unita a un ritmo complessivamente sostenuto, rendono però la visione tutto sommato godibile, a cui si uniscono (fattore non secondario) la già citata performance di alto livello di Daniels e quelle dei bravissimi Bill Camp e Thomas J. Pelpherey, già visto in serie apprezzate come Ozark e Banshee, il cui personaggio, arrogante coi più deboli e zerbino coi potenti, sembra pescato dal mondo che Frankie hi-nrg mc racconta nella sua immortale hit del 1997  Quelli che benpensano (‘Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro. Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili. Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili’).  
Disponibile su Netflix e adattato per lo schermo da David E. Kelly, recentemente creatore di un’altra miniserie tratta da un romanzo, Anatomia di uno scandalo, Un uomo vero resta e resterà un divertissement dai toni non sempre ben amalgamati e da una gestione narrativa non del tutto convincente ma anche l’occasione, penso per molti, di avvicinarsi a una fondamentale figura di intellettuale qual è stata quella di Tom Wolfe, padre del New Journalism e inventore del termine radical chic. E non è poco.

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