Blitz: classicità e retorica

 
 

Steve McQueen è uno di quei registi che nel corso degli anni ci ha abituati alla ruvidezza e alla forza dell’immagine spoglia, a volte ingabbiata e claustrofobica, altre aperta e risuonante. Vederlo scegliere una strada più classica e a suo modo sensazionale ha stupito pubblico e critica ancor prima che Blitz, presentato alla Festa del Cinema di Roma, approdasse su Apple Tv.

Londra 1940, la città è preda dei sempre più frequenti bombardamenti e Rita (Saoirse Ronan), giovane madre lavoratrice, a malincuore fa evacuare il figlio di 11 anni, George (Eliott Hffernan) in campagna. Si tratta di una possibilità offerta dal Governo affinché i più piccoli possano mettersi in salvo lontano dalla distruzione della guerra. George non vuole partire, ma, costretto dalla madre, prima di salire sul treno le urla un “Ti odio” di cui presto si pentirà. Prima ancora di giungere a destinazione, il bambino fugge e inizia la sua personale avventura per tornare a casa.

Una favola attraverso l’orrore quella del piccolo George, nato dalla relazione tra un musicista jazz di colore, deportato, e una giovane inglese dalla bellissima voce: un novello Oliver Twist che impara sulla sua pelle l’odio razziale, la cattiveria e l’egoismo umano e che, grazie a una “guida” incontrata per caso comprende quale sia la giusta risposta alla malignità altrui. Il bambino e il suo punto di vista sono il centro della storia, ma non l’unico poiché parallelamente e in controcampo vediamo la sofferenza di Rita che rimugina sulla sua decisione cercando, comunque, di non restare con le mani in mano e di fare del bene al prossimo. Estremamente classico nella messa in scena e nella sceneggiatura, costellata di frasi ad effetto che dovrebbero suscitare stupore, mentre generano solo retorica, il nuovo lavoro di McQueen guarda ai grandi maestri e alle loro morali – Spielberg su tutti – protendendo, però, per una ossessiva esplicitazione: la bellezza e lo stupore sopravvivono anche quando  la violenza dilaga. Dunque, Blitz ricalca più i maldestri e fastidiosi passi di Branagh e del suo Belfast, fatto di enfasi e di emotività studiata a tavolino.

Nell’alternanza di momenti di altissima tensione bellica, come la scena iniziale in cui bombe e scoppi, fuoco e metallo disturbano sguardo e udito, si passa ad un’atmosfera intima e in alcuni punti onirica e favolistica, come quando George con la sua valigia sottobraccio ripercorre a piedi e al contrario i binari che lo riporteranno a Londra. L’estrema dolcezza dell’abbraccio di una madre  - Rota diventa archetipo stesso della maternità – si contrappone all’ineluttabilità della morte degli indifesi, esattamente come le masse che premono per nascondersi nelle gallerie della metropolitana cedono il passo al gioco cercato nella miseria del nulla: sono tutte facce della stessa medaglia, montante in modo tale che l’emotività dello spettatore sia costantemente solleticata e stimolata, poi lenita dai momenti musicali in cui Rita canta lasciando che la sua voce sia l’unica fievole nota di speranza nella sofferenza dei sottopagati, dei malati e degli sfollati.

Ciò che va elogiato di McQueen – seppur sia un’arma a doppio taglio – è il tentativo e la lungimiranza nel condensare un buona parte di tematiche centrali della sua filmografia nel 120 minuti di pellicola, continuando a tenere alta la soglia dell’attenzione anche sulla questione razziale e sulla parità di genere: il piccolo George è consapevole della sua “diversità” e degli insulti che attira il colore della sua pelle, esattamente come lo è il soldato nigeriano che incontrerà sul suo cammino e che finirà per incarnare la figura paterna mai conosciuta, allo stesso modo le operaie della fabbrica, colleghe di Rita, sono ben consce del pessimo trattamento che viene riservato loro dal proprietario e tentano di reagire nella speranza di essere ascoltate. Mescolato tra dramma melò e fotografia patinata resta – acerbissimo e poco sfruttato – il desiderio di ribellione, il grido che potrebbe e dovrebbe squarciare la notte per non restare inascoltato: sono forse quegli elementi che il regista non ha voluto approfondire per mostrare in grande spolvero il suo nuovo approccio, per nulla visionario, al cinema classico che non gli appartiene ma che rientra perfettamente nelle richieste avanzate da Apple nella categoria drama.

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