Cobra Kai 6: la resa dei conti tra karate, nostalgia e identità

C’è un momento in cui una storia capisce che deve chiudere il cerchio. Quando ogni colpo sferrato ha già trovato il suo contraccolpo, quando ogni rivalità ha svelato il suo senso più profondo. Per Cobra Kai, quel momento è arrivato. La sesta stagione della serie Netflix non è solo un finale: è il punto in cui la nostalgia smette di essere uno strumento di rievocazione e si fa consapevolezza, trasformando il racconto in un rito di passaggio definitivo.

Se le prime stagioni giocavano con l’effetto sorpresa – il ribaltamento della prospettiva su Karate Kid, l’ironia ruvida di Johnny Lawrence, l’eredità combattuta di Daniel LaRusso – l’ultima parte di questa saga si muove con un altro spirito. Il tono si fa più serio, il passato non è più solo un ricordo da riscattare, ma un’ombra con cui bisogna fare definitivamente i conti. Netflix ha deciso di dividere l’ultima stagione in più parti, spezzando la tensione e costringendo lo spettatore a un’attesa forse eccessiva. Ma quando il puzzle finalmente si ricompone, lo fa con il peso di una consapevolezza nuova: non si tratta più solo di karate e tornei, ma di scelte di vita. Il vecchio Cobra Kai di Terry Silver è in frantumi, ma il senso della rivalità tra i dojo non si è mai spento del tutto.

Il bello di Cobra Kai è sempre stato il suo equilibrio precario tra serietà e autoironia. La capacità di prendersi sul serio quel tanto che basta per appassionare, ma senza dimenticare che, in fondo, tutto questo nasceva da una storia anni ’80 di ragazzi che si picchiavano per l’onore. La sesta stagione mantiene questa attitudine, ma la smussa: il focus non è più sulla leggerezza, bensì sulle conseguenze. Johnny e Daniel, i due protagonisti di questo lungo arco narrativo, sono ormai figure paterne a pieno titolo. Il loro percorso di crescita è compiuto e, forse per la prima volta, lottano non per dimostrare chi ha ragione, ma per proteggere le persone che hanno accanto. La serie non rinuncia ai combattimenti spettacolari – e il Sekai Taikai è la degna arena per l’ultimo atto – ma il cuore della stagione batte nei momenti più intimi: un dialogo teso tra ex rivali, il peso delle scelte che gravano sui più giovani, la paura di ripetere gli errori del passato.

E poi c’è lui, Johnny Lawrence. Il vero motore di tutta la serie. Perché se Cobra Kai ha funzionato così bene per sei stagioni, lo deve alla sua prospettiva: al fatto che questa non fosse solo la storia di un ritorno, ma la storia di un uomo che, dopo una vita di sconfitte, ha provato a riscrivere la sua identità. Johnny è ancora un disastro sotto molti aspetti, ma è anche cresciuto. Ed è forse questo il vero trionfo della serie: aver trasformato una macchietta da villain in uno dei personaggi più umani e sfaccettati della serialità contemporanea.

Non tutto è perfetto. Alcuni archi narrativi sembrano allungati oltre il necessario, e la scelta di diluire l’ultima stagione ha tolto un po’ di tensione al racconto. Ma nel momento in cui tutto si chiude, quando il sipario cala sul tatami per l’ultima volta, Cobra Kai dimostra di aver capito il segreto del karate e della serialità: il colpo più forte non è quello che sferri, ma quello che scegli di trattenere.

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