Cobweb: tra matericità e immaterialità 

 
 

Il cinema horror si è spesso occupato di tossicità familiare, raccontandola allegoricamente e a volte con guizzi persino satirici nell’esplorare le sue disfunzionalità, e negli ultimi anni questo tema pare sia tornato prepotentemente alla ribalta all’interno del genere. Basti pensare a Speak No Evil, in cui le dinamiche familiari vanno a riverberarsi sulla conflittualità linguistica e culturale tra la società danese e quella olandese, o a Pearl dove la psicosi della protagonista viene alimentata dal clima opprimente e austero della famiglia.

Ora è disponibile su Raiplay (anche in lingua originale) Cobweb, apprezzato primo lungometraggio del cinema di Adam Bodin, autore di serie Tv come Lazy Company. Anche Cobweb cerca di lavorare sul concetto di orrore in seno alla famiglia, partendo proprio dall’archetipo dell’ambiente domestico, declinato nel topos della casa sinistra tutta scricchiolii e ombre minacciose, inserendovi il leitmotiv da J horror, ovvero la presenza spettrale di un bambino.

Tutti elementi che dalla fine degli anni Novanta con Haunting – Presenze (pessimo remake del capolavoro di Robert Wise) fino a oggi, hanno rilanciato il filone haunted house, ibridando il gotico di matrice angloamericana con l’horror paranormale giapponese. Bodin però non si limita a rispolverare e tirare a lucido schemi e topoi usurati, ma cerca di attualizzarne l’impiego con una riflessione sul bullismo, elemento già presente in molti teen horror anni Ottanta, ma che alla luce di oggi può assumere significati molto più profondi.

Cobweb cerca di rappresentare tutto questo attraverso un continuo twist narrativo che sposta alternativamente la minacciosità da una figura all’altra, quasi a voler sottolineare la scivolosità delle colpe imputabili all’interno del nuovo modello familiare, riuscendo persino a regalare qualche brivido sincero e non è cosa scontata in un panorama horror sempre meno incline alla suspense e devitalizzato dall’abuso di jumpscare, da cui Bodin riesce abbastanza bene a svincolarsi.

La costruzione della tensione emotiva e del concetto di paura partono da uno stato mentale per poi esplodere nell’orrore fisiologico, tramutando la confezione da J horror in un bric-à-brac da tragedia freak, che con un taglio registico meno da piattaforma e una dose minore di CGI avrebbero riportato a una certa dimensione arty da cinema anni Novanta. I rimandi a cui attinge Bodin fanno capo a quel cinema horror di passaggio dalla matericità del trucco alla virtualità dell’effetto speciale, che va dal 1990 al 2001, chiamando in causa direttamente lo straordinario La casa nera (uno dei film più lucidamente politici di Wes Craven) e l’ordinario The Ring (pallido rifacimento del giapponese Ringu diretto da Gore Verbinski).

Cobweb, incarna (forse più inconsciamente che non) lo sbandamento estetico/teorico che sta attraversando l’horror contemporaneo, la difficoltà nel dover far convivere spettacolo ansiogeno e riflessione sociopolitica.

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