Lumberjack the Monster: Takashi Miike manca il segno

 
 

Non è strano che Netflix pubblichi a sorpresa blocchi di titoli anonimi, destinati al dimenticatoio. Curioso piuttosto che fra questi figuri un film firmato Takashi Miike: Lumberjack the Monster, adattamento dell’omonimo romanzo di Mayusuke Kurai. I protagonisti della vicenda sono un misterioso assassino mascherato che asporta i cervelli delle sue vittime, un avvocato psicopatico che non si fa problemi ad uccidere se funzionale ai suoi scopi e viene preso di mira dal killer, una profiler della polizia che collega i due uomini e tenta di risolvere il caso. L’indagine finirà poi per aprirne un’altra che si credeva chiusa, altrettanto macabra, risalente a trent’anni prima.

Già dai due incipit, ambientati rispettivamente nel passato e nel presente, si percepisce la tecnica dell’autore giapponese: luci e taglio delle inquadrature restituiscono quel senso di sporcizia materiale o nefandezza morale, a seconda dei casi, intrecciandole in una narrazione nichilista e priva di eroi. Anche la quantità di sangue non delude, attestandosi come un buon compromesso fra la pavida media dei prodotti Netflix e l’esagerazione che contraddistingue Miike. A eccezione dell’avvocato protagonista, interpretato dal j-pop idol Kazuya Kamenashi, i ruoli principali sono tutti affidati ad attori di collaudato talento e che hanno già collaborato con l’autore: Nanao Arai (The Mole Song), Shōta sometani (L’ultimo yakuza), Kiyohiko Shibukawa (Ichi the Killer, Big Bang Love), Shidō Nakamura (Ninja Kids). Si sente quindi la mano di Miike, la tragedia è che ne manchi il cuore.

Per quanto infatti il versante thriller-horror della vicenda funzioni bene, la detection che l’accompagna è tediosa all’inverosimile, infarcita di interminabili spiegoni (solo l’ultimo dura una trentina di minuti) e che col senno di poi è totalmente superflua, visto che il nocciolo della questione è molto semplice e lineare. Se gli indizi forniti allo spettatore fossero sufficienti, un amante dei clue-puzzle si potrebbe anche divertire provando a ipotizzare il finale, ma in Lumberjack the Monster bisogna aspettare che le informazioni le fornisca la profiler dopo averle dedotte off-screen. Triste a dirsi ma di fatto l’esperienza di visione consiste nel lasciarsi depistare da un’indagine artificiosa per un paio d’ore, attendendo pazientemente che gli sceneggiatori si degnino di dissipare il mistero o che l’assassino attacchi qualcuno per risollevare un po’ le palpebre. Eliminando totalmente il lato poliziesco della trama si sarebbe ottenuto un convincente American Psycho, e invece il risultato è uno scadente Il silenzio degli innocenti. Sono molti i cineasti rigorosi che avvincono calibrando la suspence o proponendo intrecci complessi e intriganti, ma Miike non è tra loro e infatti questo suo film arranca come un pesce fuor d’acqua. Lumberjack the Monster è anche pieno di interessanti spunti narrativi su tematiche ricorrenti nella sterminata filmografia dell’autore: il tema della responsabilità del male, il sadismo intrinseco delle dinamiche sociali e la necessità di espiazione, tutto ottimo materiale che finisce scialacquato. Poco importa se la responsabilità sia da imputarsi alla spada di Damocle della grande N rossa o a semplice stanchezza autoriale, Lumberjack the Monster non colpisce se non le palpebre. Gli ammiratori di Miike rimarranno delusi, gli insonni troveranno la panacea al loro male.

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