Il fauno di marmo
Tratto dall’omonimo romance del grande narratore americano Nathaniel Hawthorne, Il fauno di marmo è andato originariamente in onda dal 28 settembre al 12 ottobre 1977 in tre puntate di circa un’ora l’una sull’allora appena nata Rai Due. Il destino del romanzo e dello sceneggiato, pur prodotti a più di un secolo di distanza, sembra essere simile: entrambi capaci di suscitare alte aspettative che non vengono tuttavia mantenute nei risultati. Il fauno di marmo (1860) fu il primo volume ad essere pubblicato da Hawthorne ad otto anni di distanza da Il romanzo di Valgioiosa (1852) che, uscito in rapida successione a La lettera scarlatta (1850) e La casa dei sette tetti (1851), aveva consolidato la fama dell’autore come uno dei maggiori esponenti di quello che F. O. Matthiessen notoriamente definì come “Rinascimento Americano”. Tuttavia, la storia misteriosa di un gruppo di artisti, l’italiano Donatello e gli americani Kenyon, Miriam e Hilda, che si ritrovano spinti all’omicidio da una figura enigmatica in una Roma dove più che i moti risorgimentali contano le rovine romane e l’elaborazione del senso di colpa, lasciò i lettori così confusi che Hawthorne dovette scrivere un irritato “Postcript” per spiegare alcuni punti della trama.
Lo stesso si può dire dello sceneggiato. Diretto dal veterano Silverio Blasi, scritto da Luisa Montagnana e Massimo Franciosa, co-sceneggiatore de Il Gattopardo (1963) e autore di Rugantino (1962), ed interpretato da volti iconici come Orso Maria Guerrini e Marina Malfatti e dai promettenti esordienti Consuelo Ferrara e Donato Placido, Il fauno di marmo ambiva a continuare la popolarità di prodotti RAI come Il segno del comando (1971), Ritratto di donna velata (1974), L’amaro caso della baronessa di Carini (1975) che coniugavano il giallo tradizionale con elementi paranormali. Tuttavia, mentre Il segno del comando viene ancora oggi ricordato come un momento fondamentale per la televisione italiana, Il fauno di marmo è un prodotto dimenticato, spesso giudicato come incoerente, sbiadito nel colore (contrapposto al bianco e nero sempre affascinante degli altri prodotti coevi) e dai dialoghi altisonanti che appesantiscono una recitazione di per sé già teatrale.
Certamente è vero che alcuni dialoghi e alcune scene in costume, utilizzate per spiegare le colpe degli antenati che, nell’adattamento televisivo, ricadono sui quattro amici, si inseriscono con qualche forzatura nell’idea, affascinante, di portare la narrazione di Hawthorne agli anni 70 del Novecento. Tuttavia, è proprio questa intuizione di fondo a rendere Il fauno di marmo un prodotto da valorizzare nella storia della nostra televisione, sempre in equilibrio tra elementi culturali domestici e stranieri, quella dialettica che Milly Buonanno ha riassunto con i poli di “storie di mare” e “storie di terra”. Nel caso di questo sceneggiato, la dialettica è arricchita dal fatto che il materiale da cui è tratto è straniero, ma riguarda l’Italia, vista da un americano che aveva un rapporto di fascinazione e, allo stesso tempo, di repulsione con la propria cultura nazionale puritana. Attualizzando la narrazione di Hawthorne agli anni 70, lo sceneggiato valorizza il contesto storico italiano in cui si svolge la storia di omicidio ed espiazione: tra i movimenti della macchina da presa, più elaborati ed eleganti rispetto alla televisione di quegli anni, emergono riferimenti all’evoluzione del costume sessuale degli italiani (un primo nudo integrale sotto la doccia, due persone non sposate a letto insieme) e alla Strategia della Tensione. Sulla prima pagina di Paese Sera, accanto alla notizia dell’omicidio che ha compiuto, uno dei quattro amici legge anche il titolo di apertura sulla strage di Piazza Fontana, il cui processo di appello è coevo allo sceneggiato: “Franco Freda: Giannettini mi fu presentato dal figlio di Romualdi”. Il velo nero della nazione, per parafrasare un racconto di Hawthorne, non ancora interamente espiato.