La caduta della casa degli Usher: dolori e orrori di famiglia

 
 

Passando in rassegna le produzioni horror di Netflix, è evidente che un nome sovrasti ogni altro a partire dal 2017, quello di Mike Flanagan che da Il gioco di Gerald (2017) in poi non ha fermato il suo irrefrenabile desiderio di raccontare per immagini, ed in chiave traslata e talvolta modernizzata, testi e racconti che sono stati capisaldi della letteratura orrorifica, gotica e psicologica. La produzione che chiude il suo rapporto con la piattaforma, disponibile dal 13 ottobre, è forse la più complessa, straripante e ambiziosa di tutte, potente e mostruosa: La caduta della casa degli Usher.

Prende energia dai progetti precedenti e la incanala, per poi farla fluire violentemente verso lo spettatore, cosicché Flanagan possa autocitarsi – senza celebrarsi – e regalare al pubblico una summa del suo lavoro che con gli Usher diventa più maturo, incastrato ad arte tra le immagini vivide che grondano verbosità di gesto e di parola. Il racconto omonimo di Poe diventa il grande contenitore per sviscerare e mettere in scena un’intera poetica. Roderick Usher, capostipite della famiglia che gestisce un impero farmaceutico, costituitosi grazie alla commercializzazione di un farmaco, il ligodone, che elimina ogni forma di dolore fisico, è al centro di un processo epocale che lo vede colpevole della morte di un altissimo numero di pazienti che hanno abusato del farmaco. La sua posizione, già precaria, viene aggravata dalle sfortunate ed inspiegabili morti dei suoi sei figli. Eppure, nulla è casuale, a partire da una strana donna che si manifesta sulla scena del delitto poco prima del decesso degli Usher. Cuori rivelatori, mantelli rossi, pendoli, gatti neri divengono veicoli narrativi puramente simbolici mentre la morte – il cui dolore non può essere alleviato dal ligodone – divide, separa, distrugge e dilania un’umanità arida e corrotta, avvelenata dal rancore e dalla sete di potere che è stata iniettata loro, come un siero della longevità, dalle menti senza scrupoli di un’ascesa rapida e dunque rovinosa: Roderick e la sorella gemella Madeline.

In una narrazione che acrobaticamente si sviluppa su differenti piani temporali, restano i saldi cardini del racconto di Poe di una vecchia dimora fatiscente e di una conversazione tra “vecchi amici” che gira attorno ad una confessione a lungo rifuggita e rimandata. L’inizio e la fine di una struttura circolare che ruota attorno ad un patto con il diavolo che qui ha le sembianze di una splendente Carla Gugino. Tutto ha un prezzo, ed il più alto da pagare è quello che coinvolge anche anime innocenti che, venendo al mondo, hanno inconsapevolmente firmato la propria condanna terrena. Gli Usher impersonano la malvagità umana, eppure, almeno da ciò che viene sottolineato da uno dei più bei monologhi della serie, affidato a Madeline,  è la società che li ha resi senza scrupoli, che li ha osannati e sempre osannerà chiunque, a caro prezzo, venda la soluzione più semplice. Flanagan, dosando con attenzione tutti gli elementi narrativi e linguistici, crea quadri perfetti di morte e di orrore che si aprono alla performance artistica, esempio ne è la pioggia di acidi che con una lunga panoramica a ralenti colpisce gli strafatti invitati di una festa esclusiva organizzata dal  giovanissimo Prospero Usher: volti deformati, corrosi dall’acido compongono un’orripilante danza di morte che non ha intenzione di arrestarsi, che muterà e che si nutrirà della follia umana per proseguire la sua nera ed implacabile esecuzione. Allucinazioni, reali causate da malattie degenerative, e oniriche divengono per Flanagan tentativi di intervento di una coscienza annullata e repressa, che scalpita per farsi sentire.

Vorticosa e coinvolgente l’operazione di Mike Flanagan, che in ognuno degli otto episodi non si limita a concentrarsi sulla vicenda della vittima e a dar sfoggio del suo talento nella messa in scena di una morte raccapricciante; il racconto, e il punto di vista dei diretti interessati, si ampliano e si restringono per dar luce e peso alle piccole e alle grandi sfumature della cattiveria, coltivata come una pianta pronta a dare i suoi frutti per portare avanti esperimenti che si propongono di salvare l’umanità per, in realtà, procurare profitti esorbitanti. L’orrore qual è, dunque? Quello esibito o quello nascosto? La risposta di Flanagan, qui più che altrove, si compatta con quella dello scrittore che ha scelto di indagare: il vero orrore sta in ciò che la mente dell’uomo può partorire, nella reazione che può avere quando solleticata dal senso di colpa, o dall’incapacità di elaborare una sconfitta. Febbrili, tremanti, tossici e intossicati sono i membri della famiglia Usher, messi l’uno contro l’altro dai giochi manipolatori di loro padre e da quelli del destino, artefici di una triplice caduta in cui la parola “casa” assume, per l’appunto, diversi significati, concreti e astratti: la casa farmaceutica, la famiglia, la diroccata  stamberga in cui Roderick e Madeline sono cresciuti, ma anche quella  sconfinata di una giustizia che dovrebbe riunire e salvare i giusti per punire i colpevoli, e che invece crolla sotto le manovre illecite di potenti corrotti che governano il mondo. Nonostante ciò, nella profondità di un abisso buio verso cui tutti i personaggi sono trascinati, si intravede una piccola luce di speranza, per chi il coraggio non lo  simula ma lo possiede, per chi il dolore fisico impara a sopportarlo: due donne, due Frankenstein costruite ad arte e tenute in vita nella barbarie del ricatto che all’estremo reagiscono tagliando di netto il loro legame di sudditanza autonomamente, o con l’aiuto di una mano candida di un’immacolata vittima sacrificale.

La caduta della casa degli Usher è dunque una pietra preziosa, calibrata sia visivamente che narrativamente, costruita con la minuzia di uno showrunner che non ha dato nulla per scontato, che non ha lasciato nessun aspetto al caso e che ha deciso di dire addio ai fedelissimi di Netflix, in grande stile, mostrando, senza alcuna superbia, agli autori di piccole produzioni sgangherate, che il metodo, lo studio e l’adattamento non fine a se stesso danno i loro frutti.

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