Riverdale: più che un luogo del cuore, un vero e proprio “stargate” fra la vita e la morte
Partì tutto con due vicini di casa, mentre si scambiavano occhiate languide alla finestra. E con un omicidio dai capelli rossi, quelli color ciliegia, o meglio color sciroppo d’acero di Jason Blossom. Riverdale è una strana cittadina, dominata da un'atmosfera nostalgica anni Cinquanta e milkshake alla fragola consumati ininterrottamente da Pop’s, più che un luogo del cuore, un vero e proprio “stargate” fra la vita e la morte. E un dipinto di Hopper.
Non a caso, la voce di questo mondo ‘sospeso’ è quella di Jug “Jughead” Jones, aspirante scrittore – e non solo di fumetti horror – dall’assurdo cappello a stella che batte senza tregua alla sua macchina da scrivere Remington le innumerevoli storie che scorrono e attraversano le vie della città. Con la sua creatività e il suo sguardo strutturato da trame complesse, come difatti risultano essere i racconti seriali, incasella perfettamente tutte le dinamiche focose ed inaspettate che intercorrono tra questi splendidi teenagers; ognuno con le sue difficoltà, specificità e soprattutto differenze che fa di Riverdale un micro/maxi universo di cui è impossibile non far parte, nella sua assurdità, nei suoi contrappassi e riferimenti, nei suoi paradossi temporali e tantomeno non rispecchiarsi.
Personalmente ho trascorso sette lunghi e appassionati anni in compagnia di Jughead (Cole Sprouse), Archie (KJ Apa), Betty (Lili Reinhart), Cheryl (Madelaine Petsch), Veronica (Camila Mendes), Kevin (Casey Cott), Toni (Vanessa Morgan) e degli altri numerosissimi studenti della Riverdale High fra canti, musical, balli di fine anno, partite di basket e di football e mirabolanti coreografie aerobiche di Cheryl e delle sue amate Vixens. E in tutto questo non mi sono mai annoiato, anche quando la situazione diveniva più cupa: il terribile Black Hood la cui identità è un traumatico colpo di scena per Betty Cooper; il Lattaio, che lascia dietro di sé una corposa scia di sangue e un rintoccare inquietante delle sue bottiglie di vetro, e non solo; il Re Gargoyle che dipinge a tinte lugubri ed esoteriche la luce della città, tanto da uscirne solamente con l’aiuto di Sabrina Spellman (Kiernan Shipka), mestierante strega della vicina Greendale.
E naturalmente gli adulti non ne escono bene da questi intrecci e dalle storie che si raccontano a Riverdale. C’è chi i genitori non li ha o li cerca disperatamente, come l’indimenticato Fred Andrews e il suo interprete Luke Perry, padre che lascerà per sempre un vuoto in Archie; oppure l’ambigua e apparentemente conformista Alice Cooper (Mädchen Amick) – non involontariamente una presenza presa da un’altra cittadina ‘sospesa’ come quella di Twin Peaks! –, custode di mille segreti e per non parlare dei Lodge, i genitori superstar di Veronica, arraffoni, truffatori ed interessati al malaffare. Il personale scolastico non è d’altronde tutto rosa e fiori, in particolare nell’ultima e struggente avventura, dove si ritorna indietro realmente in quegli anni Cinquanta, e sarà complicato districarsi dalla Caccia alle Streghe del maccartismo, del segregazionismo.
Il gruppo dei fantastici teenagers suderanno sette camicie per abbattere o almeno per scalfire l’ipocrisia di quel rosa caramello e dei mobili in rovere per far posto ad un’idea decisamente più democratica per un indirizzo migliore verso il futuro. E quindi il futuro, che in Riverdale si incrocia, si scontra, si bacia con il passato e con una certa visione del presente, anche contemporaneamente secondo gli usi e le discussioni modernissime sul multiverso dove in alcuni attimi ritroviamo probabili origin stories ma in altre vediamo delle ‘alternative’, alcune decisamente più barocche, come le iniezioni di Palladio nel corpo di Archie Andrews o della natura ancestrale di Tabitha (Erinn Westbrook) ma altre più nostalgiche fondate su spassosi What if? sentimentali.
Il segreto tuttavia è racchiuso in quei comics, i fumetti che scrive Jughead Jones condivisi dai disegni di Ethel Muggs (Shannon Purser), albi seriali di varia natura, dall’horror al supereroistico, dal romance agli albi speciali come La Cometa, capaci di rovesciare un mondo. È l’essenza stessa variegata, paradossale e contrastante di tono di quelle storie – un occhiolino ai fumetti off-screen realmente pubblicati dalla Archie Comics – che anima fondamentalmente i numerosi episodi dello show (sono circa centotrenta), passando in rassegna tutte le sfaccettature del racconto di genere, anche nelle sue varianti “speciali” come le storie di Natale o di Halloween.
Ma, nonostante le decostruzioni e ricostruzioni in un universo oscillante, dove infine anche gli stessi luoghi magici e ricorrenti di Riverdale vengono abbandonati ai fantasmi – il Babylonium, il Dark Room, il Bosco Tetro, la Riverdale High School – c’è una costante che è per sempre, ovvero il potere di un’amicizia incredibile al di là dei corpi, al di là delle scelte individuali, consumata davanti ad un bicchierone di milkshake alla fragola mentre Pop Tate (Alvin Sanders) sorride sornione verso di loro gustando con la sua intoccabile positività la bellezza di una gioventù, perché Archie, Betty, Veronica, Jug saranno teenagers per sempre, e noi con loro, grazie a loro.