Sugar: Los Angeles e il neo-noir
Ideata da Fernando Meirelles e scritta da Mark Protosevich, Sugar utilizza il noir per raccontare tutt’altro, immergendo lo spettatore in una perturbata Los Angeles che può corrompere chiunque e diventa “metafora dell’America e del mondo occidentale”. Se usiamo le parole di Robert Altman, possiamo forse capire il principio di fondo che regola la narrazione losangelina della serie in streaming su Apple tv: l’annientamento dei confini tra bene e male e la rappresentazione di uno spazio urbano privo di centro, “luogo dove gli opposti più esasperati convivono”, come disse Wim Wenders.
Sugar può essere raccontata come una serie che esplora in modo dettagliato e realistico la simbiosi cinematografica tra società e città, e non solo come rivisitazione del noir e decostruzione di un genere e di uno stile. Le Pistole fumanti e la Corvette guidata dal detective John Sugar (Colin Farrell), rappresentano giochi cinefili che vogliono depistare lo spettatore prima e dopo uno sconvolgente twist-cliffhanger nel sesto episodio. Si tratta di un fil rouge e di una rigida cornice narrativa, oltre che di una tendenza dell’immaginario che viene potenziata dai controcampi, molto alleniani, in cui le azioni del detective empatico e atarassico si accostano alle gesta iconiche di Glenn Ford o Humprey Bogart.
Tutto davvero molto accattivante, persino le stranezze che fin dall’inizio creano uno spazio interstiziale che lo spettatore non riesce immediatamente a riempire. Perché Sugar è così freddo, lucido e apparentemente invincibile, proprio come un supereroe? A quale strana setta o congrega appartiene e per conto di chi lavora? Perché sostiene di essere qui in veste di osservatore? Senza svelare troppo, possiamo dire che la sorpresa di fronte alla rivelazione ha il sapore di uno choc baudelairiano che, nel caso di John Sugar, si accompagna ad uno strano spleen metropolitano.
John Sugar sta investigando sulla misteriosa scomparsa di Olivia, nipote dell’influente produttore hollywoodiano Jonathan Siegel e ben presto scopre i tanti segreti che la famiglia Siegel vuole tenere nascosti e che si intrecciano in una vicenda morbosa di morte e cospirazione. In abito Savile Row, con la pistola di Glenn Ford e a bordo della Corvette blu, l’investigatore, dopo una breve sosta a Tokyo al servizio di un uomo della Yakuza, si dirige a Los Angeles nel mondo dorato e corrotto dello star system.
La serie crea un dialogo continuo con lo spettatore, fornendogli tutti gli strumenti per immergersi completamente in uno scenario hard boiled che ammicca a Dashiell Hammett e Raymond Chandler e per immedesimarsi in un gioco neanche troppo sottile di narrazione e autorappresentazione: il detective è anche un accanito cinefilo e i rimandi interni alle filmografie dei noir anni Quaranta e Cinquanta creano un’autoreferenzialità classica molto incisiva.
Se “i film sono una cospirazione e ti convincono a credere a tutto”, come dice l’interprete di un personaggio di una vecchia pellicola trasmessa in tv, la serie amplifica la sospensione dell’incredulità e, attraverso citazioni colte, compone quadri losangelini che arriveranno poi a stemperarsi in incredibili toni messianici, per poi proseguire lungo il binario di un neo-noir d’atmosfera fino alla fine.
Tra squarci visionari e una narrazione sempre impostata sul citazionismo di un immaginario che, come capiremo dopo, persegue anche altre finalità all’inizio non facilmente intuibili, Sugar è un prodotto complesso e stratificato capace di coinvolgere e stranire.