Sugarcane: storia di abusi, perdono e identità nel documentario candidato all’Oscar
Tra i candidati all’Oscar per miglior documentario troviamo Sugarcane di Emily Kassie e Julian Brave NoiseCat, visibile su Disney+. Lo scopo del documentario è quello di portare alla luce gli abusi perpetrati nelle scuole residenziali per nativi sparsi tra Canada e Stati Uniti. Nello specifico Sugarcane si concentra su quelli avvenuti nella scuola di St. Joseph, nei pressi della riserva Sugarcane abitata dai Secwepemc.
In Sugarcane si alternano linee narrative diverse: abbiamo le testimonianze dei sopravvissuti, le investigazioni sul passato, il tentativo di ricostruire un rapporto genitoriale martoriato dal ricordo degli abusi e, infine, il riconoscimento e le scuse da parte del Canada e della Chiesa Cattolica. Questo intrecciarsi di narrazioni crea però confusione nello spettatore, che fatica a ricostruire la vicenda. Tuttavia, lo scopo di Sugarcane è forse un altro, quello di portare lo spettatore ad empatizzare con il dolore, ma soprattutto quello di aiutare una comunità intera a liberarsi da un peso insostenibile. Per decenni i nativi si sono sentiti trattati come selvaggi, sono stati costretti ad abbandonare le loro tradizioni e a subire, inascoltati, abusi di ogni tipo. Tutta la comunità di St. Joseph, anche solo accettando quanto accadeva, è complice e carnefice della distruzione di parte della comunità locale. Dagli abusi sono nati anche bambini di doppia discendenza che si sono ritrovati ad essere parafulmine per una comunità incapace di sfogare altrimenti il proprio dolore.
Quello che colpisce è il sostanziale silenzio da parte di molti, l’incapacità di venire a patti con il passato, il tentativo di rimuoverlo per proteggersi. Ma le vite di tutti sono state influenzate e molti, usciti dalla scuola, non sono stati capaci di integrarsi nella società finendone ai margini. Il regista Julian Brave NoiseCat tenta con questo documentario di recuperare il rapporto con il padre Ed Archie NoiseCat, figlio di un abuso. Lentamente ma inesorabilmente, il padre riesce ad aprirsi, a costruire un rapporto con il figlio ed a rientrare in contatto con la natura e le proprie tradizioni culturali. Nel corso del documentario tanti faranno poi lo stesso percorso, condividendo in maniera terapeutica il proprio dolore.
Sugarcane, a livello realizzativo, ha però delle problematiche. Prima di tutto una lentezza quasi snervante e poi la sensazione che non tutte le linee narrative abbiano una conclusione effettiva. Questa incoerenza narrativa sembra però essere quasi voluta per dare maggiore forza alle singole persone che decidono di raccontare quanto hanno subito. La macchina da presa si concentra su di loro con primi e primissimi piani e la predilezione per luci calde e ambienti luminosi. La luce assume dunque un significato simbolico così come la natura in generale. Attraverso di essa le persone riescono a riappropriarsi della propria cultura e della propria libertà.
Con Sugarcane si rompe una doppia tradizione di silenzi: quella legata agli abusi della chiesa cattolica e quella degli abusi ai nativi americani. Con un suo modo personalissimo ed originale, il documentario restituisce la voce a persone che erano rimaste inascoltate per troppo tempo. La candidatura all’Oscar è solo un ulteriore passo della volontà politica e sociale di parlare di queste tematiche e non nasconderle più sotto il tappeto dell’indifferenza.