Dostoevskij: l’antieroe seriale dei fratelli D’Innocenzo
Ancora prima di entrare effettivamente nel mondo della produzione seriale, Damiano e Fabio D’Innocenzo avevano abbracciato la dimensione della serialità già con i loro primi tre lungometraggi. Non si trattava certo di una serialità narrativa, ma piuttosto di una serialità tematica, rivendicata a livello paratestuale con la pubblicazione nel 2022 di un volume intitolato Trilogia, edito da La nave di Teseo, che raccoglieva proprio le sceneggiature dei loro tre primi film: La terra dell’abbastanza (2018), Favolacce (2020) e America Latina (2021) erano tre pellicole che raccontavano, da prospettive diverse, le vite ai margini della provincia italiana contemporanea, con uno stile che, rifacendosi tra gli altri anche al lavoro di Matteo Garrone, univa l’aderenza alla realtà ad una sublimazione fiabesca. Il centro tematico di quei tre lungometraggi erano le ossessioni dell’Italia contemporanea, oscillanti tra i traumi del mondo infantile e la violenza adulta e maschile. Dostoevskij, (Sky Atlantic, 2024), che è la prima serie televisiva scritta e diretta dai D’Innocenzo, riprende tutti quei temi.
Dopo l’anteprima a Berlino e una distribuzione cinematografica a luglio 2024, Dostoevskij arriva su Sky tutta in una volta, accorciando ancora di più la distanza che separa questa nuova opera dei D’Innocenzo dalla loro produzione precedente. Al centro dei sei episodi c’è Enzo Vitello, poliziotto interpretato da Filippo Timi, che indaga sugli omicidi di un misterioso serial killer soprannominato dalla polizia “Dostoevskij” – per via delle lettere che lascia sempre accanto alle sue vittime. Assecondando la tradizione della serialità televisiva complessa, ma anche seguendo la poetica propria dei D’Innocenzo, il protagonista interpretato da Timi è tutto fuorché un eroe: è, piuttosto, un antieroe nel senso letterale del termine, un personaggio deprecabile, con cui gli spettatori simpatizzano solo perché si contrappone a una figura – il serial killer – decisamente peggiore. Il personaggio di Timi non è soltanto questo, ma è anche la figura attraverso cui leggere l’intera serie, per collocarla all’interno della poetica dei D’Innocenzo, in quanto verso di lui convergono tutte le tematiche che caratterizzano la produzione dei due registi. Enzo Vitello è un uomo violento, è un poliziotto “fascista” sulla falsariga del Clint Eastwood di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Don Siegel, 1971) e, proprio come Eastwood, si fa simbolo di una mascolinità tossica e violenta contro cui è inevitabile schierarsi oggi.
Ma Enzo Vitello è anche un corpo che si integra alla perfezione con i paesaggi desolati, spogli, vuoti eppure abitati che riempiono l’inquadratura di Dostoevskij. Così come per America Latina – che visivamente è il film a cui questa serie si avvicina di più – la provincia italiana diventa luogo dell’orrore, un orrore che viene costruito soprattutto visivamente, tramite il modo di inquadrare i corpi e i volti. I volti sono protagonisti di Dostoevskij, serie che basa tanto della sua narrazione sullo “sguardo”, sulla centralità delle fotografie e delle immagini. Un approccio superficiale allo studio di quest’opera troverebbe contraddittorio che proprio quando si avvicinano al piccolo schermo i fratelli D’Innocenzo propongano un lavoro che investe così tante energie nella dimensione visiva.
Eppure non è affatto contraddittorio, non solo perché ormai è riduttivo intendere la serialità televisiva – in particolare quella delle pay TV – come racchiusa all’interno della cornice del piccolo schermo televisivo, ma anche perché la dimensione estetica di Dostoevskij riecheggia la centralità che l’immagine ha all’interno della storia. Le riprese su pellicola danno all’immagine una consistenza materiale e povera che si sposa con lo squallore del mondo raccontato e si avvicina, esteticamente, al realismo magico di una parte del cinema italiano contemporaneo, che vede in Alice Rohrwacher il principale punto di riferimento. Dall’altra parte, un’evidente influenza dei D’Innocenzo è il cinema e la serialità thriller degli Stati Uniti, i cui meccanismi vengono qui calati in una confezione estremamente personale, evocativa e radicata nel contesto italiano – a dispetto di alcune battute fin troppo debitrici del modo di esprimersi americano, e quindi poco credibili nel contesto della serie.
Per quanto sia difficile distinguere Dostoevskij dal resto dell’opera dei D’Innocenzo, per i motivi descritti sopra, un’analisi attenta lascia chiaramente emergere come lo storytelling seriale sia compreso e accolto dai due autori. I singoli episodi sono scritti come episodi di una serie – seppur una certa libertà anche in tal senso sia evidente –, la storia è chiaramente divisa in due parti, due blocchi composti da tre episodi ciascuno, e a loro volta i singoli blocchi sono suddivisi secondo una scansione tipicamente seriale, che vede convergere le varie sottotrame dedicate ai singoli protagonisti nell’ultimo episodio. Proprio l’ultimo episodio rappresenta il compimento del personaggio di Enzo, con una conclusione circolare che mette in evidenza la rassegnazione e il nichilismo tipico dell’opera dei D’Innocenzo, che anche qui, nonostante l’apertura tipica della serialità, è sempre presente.