M – Il figlio del secolo: il linguaggio del cinema che interpreta la Storia

Riscrivere la storia dandole il giusto peso, spazio e corso non è semplice, lo è ancor meno quando si vanno a toccare pagine cruciali con cui non si sono ancora davvero fatti i conti.  I romanzi di Antonio Scurati hanno acceso il dibattito spaccato in due pubblico e critica, fatto ardere il sacro fuoco della polemica. La miniserie tratta dal primo volume M- il figlio del secolo, sin dal suo passaggio alla Mostra del Cinema di Venezia ha suscitato un dibattito analogo. C’è chi la definisce la migliore trasposizione per immagini dell’avvento del fascismo, chi un ambizioso prodotto barocco e manierista senza troppo peso. Ciò che è certo  è che comunque se ne parli, la miniserie diretta da Joe Wright e con protagonista Luca Marinelli non sarà tra quelle destinate all’oblio.

L’arco temporale coperto dagli otto episodi va dal 1919, anno in cui Benito Mussolini fonda i Fasci italiani di Combattimento, fino all’assunzione di responsabilità del Delitto Matteotti, quindi all’atto definitivo che consacra la presa di potere del Duce. Con un maestoso piano sequenza viene suggellato il patto tra Mussolini e lo spettatore con la prima di una lunga serie di rotture della quarta parete. Mussolini si rivolge a noi e ci esorta a seguirlo, ci avverte e ci provoca: “Seguitemi! Anche voi mi amerete. Anche voi diventerete fascisti”. Se dapprima può sembrare faticoso, imbarazzante, scomodo, ben presto ci si farà l’abitudine e si comprenderà che questo, scelto da Joe Wright, e solo abbozzato da Scurati, è il solo modo per immergersi in un pensiero, in un’ideologia in un progetto e per poterlo analizzare, criticare e prenderne le distanze. Per prendere consapevolezza di un “fenomeno” ci si deve immergere in esso ed attraverso la violenza gratuita, gli stupri, i dubbi, le minime esitazioni e le repentine prese di posizione che il futuro Duce, in dialogo con  noi e con se stesso realizza il suo sogno prendendosi “il tempo che viene”.

M- Il figlio del secolo gioca sul mezzo cinematografico e mette in scena la grande rivoluzione, anche mediatica di cui fu protagonista Mussolini: usa la macchina da presa, le inquadrature, la fotografia come segni distintivi di una metamorfosi, di un passaggio che l’Italia ha vissuto senza davvero rendersene conto. Il buio della Milano post primo conflitto mondiale e la disperazione dei suoi abitanti lasciano, episodio dopo episodio, spazio alla luce della novità che abbaglia e finirà con l’acciecare fino a rendere gli italiani stessi vittime della scelta che sembrava essere la meno peggio. Dalla angusta segretezza dei complotti alla grandezza spaesante dei palazzi del potere, passando per i salotti più in vista, per gli incontri depravati e le alleanze di comodo: ogni tassello della storia che prende forma sul piccolo schermo, orchestrata dal multiforme Mussolini ha un suo colore, una sua atmosfera, un movimento di macchina  deciso, fulmineo e vertiginoso pronto ad immortalarla. 

Eppure, se da un lato vi è il complesso dinamismo del cinema, dall’altra vi è la camaleontica interpretazione di Luca Marinelli che si piega all’impeto, alle brutture, al carisma straripante del suo personaggio imprendibile e sopra le righe. Mussolini è una maschera che ne contiene decine al suo interno, pronte a comparire al momento giusto: uomo politico, seduttore, marito, padre, violento, impulsivo, meditabondo, in preda al destino, deciso, vinto e poi vincitore, una carrellata di modi di essere che, tra dramma e caricatura cercata, si alternano e per dare peso ad ogni lato dell’uomo che diventa mito, prima bistrattato e poi osannato. Ed è così che il pubblico scettico viene rapito dalla grandezza di ciò che vede, dalla decadenza morale, dalla bieca manipolazione, dall’uso del corpo e della voce, dalla retorica e dall’oratoria. Si indigna, si meraviglia, sorride sotto i baffi quando prende consapevolezza della macchina diabolica, della farsa che si sta animando sotto il suo sguardo. La potenza della miniserie di Joe Wright sta proprio nel coinvolgimento, nel montare e smontare i tasselli di un mosaico che può essere preso in esame da differenti angolazioni. Che sia un regista straniero, britannico, a realizzare un’opera tanto dinamica e innovativa per la serialità italiana è la prova di come  solo senza  essere coinvolti – influenzati dal peso di una ingombrante memoria storica – si possa elaborare una resa scenica ad effetto in cui la Storia incontra la teatralità e la sfrutta per poter essere incisiva, polemica, provocatoria e controversa.

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