Piccoli Brividi: La misteriosa avventura

Tutto comincia nel 1994, naturalmente. Una data divenuta ormai un marchio di fabbrica delle operazioni “nostalgia” dell’universo transmediale di R.L. Stine. Il  1994 è la data della pubblicazione italiana del primo romanzo dell’amatissima serie Goosebumps, ovvero Piccoli Brividi, intitolato La casa della morte (Welcome to Dead House). Già pubblicato negli Stati Uniti nel 1992, ma arrivato al successo proprio in quel 1994 dove, da qualche anno a questa parte, ripartono come incipit tutte le narrazioni alternative di quel mondo di “piccoli brividi” tratto o liberamente ispirato dalla penna di R.L. Stine. Riflettendo sulla seconda stagione del suo “brand” più noto, Piccoli Brividi (ricordiamo anche la traduzione per Netflix di alcuni film tratti dalla collana letteraria gemella Fear Street e la miniserie Just Beyond, disponibile su Disney+, tratta da alcuni comics sceneggiati da Stine), l’operazione nostalgia funziona in alcuni punti prettamente estetici. Tuttavia, la narrazione e il linguaggio si adattano alle forme nuove del teen-horror e al target a cui questo si rivolge. Vediamo cosa funziona e cosa, invece, purtroppo non si incastra in questa seconda operazione seriale, anche rispetto alla prima incursione televisiva nel mondo di Goosebumps (2023).

Come già nella prima stagione, strutturalmente, la serie televisiva sposa un formato simile-antologico. In ogni episodio vediamo, quindi, succedersi diversi e sfaccettati elementi soprannaturali e misteri, o eerie, che il gruppo e la squadra di adolescenti (cast e location differenti dalla prima stagione) dovranno affrontare e superare. Tuttavia il “mistero” centrale, in questo caso una inquietante scomparsa avvenuta proprio nel 1994, ovvero trent’anni prima, ritornerà e sarà la linea tematica orizzontale che chiuderà il cerchio nell’ultimo e ottavo episodio della stagione. Dunque, abbiamo una struttura ibrida gestita tramite trame verticali, in un certo senso spendibili ed esauribili alla fine di ogni episodio. Infatti, ognuno di questi otto “capitoli” prende il titolo da un romanzo dei Piccoli Brividi di Stine e a queste trame si abbina una corposa trama orizzontale che indica il tema e il mistero centrale da indagare. In questo caso appunto The Vanishing, la scomparsa di Matty, fratello del protagonista Anthony Brewer e di altri ragazzi avvenuta in un sotterraneo che sembra essere l’accesso ad un laboratorio di esperimenti di carattere militare. Proprio quel giorno, di tanti anni fa, venne liberato qualcuno o qualcosa che ha imprigionato e fatto scomparire questi ragazzi, ad eccezione di Anthony. Si passa così al presente, siamo nella cittadina di Gravesend, una piccola città di periferia - come tante altre che popolano l’universo narrativo di Stine - dove arrivano i gemelli Cece (Jayden Bartels) e Devin (Sam McCarthy) figli adolescenti di Anthony Brewer, ormai adulto e qui altra bella sorpresa della serie: ad interpretarlo c’è David Schwimmer, il Ross di Friends. Una scelta mirata visto che, come avvenuto nella prima stagione della serie, nei ruoli principali degli adulti si vuole procedere proprio nella direzione “nostalgia 90s”. Il cast, dunque, si arricchisce di grandi protagonisti della Televisione di quegli anni (oltre a Schwimmer menziono anche “Hilda Suarez” Ana Ortiz da Ugly Betty, nel ruolo della madre-poliziotta di una delle adolescenti, Alex).

Come nella prima stagione il target di età del team di ragazzi che deve, loro malgrado, avere a che fare con orrori indicibili, è leggermente più alto rispetto alla collana dei romanzi di Stine oppure all’epocale serie TV degli anni Novanta di Piccoli Brividi. A differenza di quest’ultima produzione, lì si aveva un formato puramente antologico con l’obiettivo di una traduzione sincronica dei romanzi (ringrazio la community italiana di Piccoli Brividi per aver messo a disposizione gli episodi della prima stagione). Dunque non più middle-grade kids, ossia ragazzi tra i dodici e i quattordici anni, ma dei teenager diciassettenni-diciottenni. E naturalmente anche il tono e le atmosfere si fanno più dense e più dark, così come gli effetti speciali che fanno un ottimo lavoro alla produzione. Il reparto che infatti funziona più di tutti per rintracciare le orme dei Piccoli Brividi di R.L. Stine è proprio quello degli effetti horror abbinati alla creazione dei mostri. Il design dei numerosi mostri e props di scena richiama a gran voce le copertine di Tim Jacobus, come La notte dei mostri di fango oppure La macchina stregata. Purtroppo, però, verso metà stagione la serie vira nel risolvere la trama orizzontale, per dare in pasto ai suoi spettatori/fan altre atmosfere alla Stine e, pertanto, deraglia un po’ anche rispetto alla prima stagione. In alcuni episodi verso la conclusione diventa un attimo ripetitiva e si ripercuote su se stessa, anche le location utilizzate e i titoli dei libri di Stine sono indicativi solo come pretesto, ma nel contenuto non c’è corrispondenza. Pensiamo a Il campeggio degli orrori che non ha assolutamente alcun richiamo a quello che vediamo nell’episodio 7. E la questione dei titoli non è qualcosa di poco conto perché, come più volte ha affermato Stine stesso, lui incomincia a scrivere un nuovo libro partendo proprio dal titolo. Questo è quindi qualcosa di indicativo del tema e dell’argomento scelto dal franchise Goosebumps. Verso la fine, purtroppo, Piccoli Brividi. Una misteriosa avventura, si trasforma in un simil-Stranger Things che affronta anche temi “marziani” molto simili - il succitato esperimento da laboratorio che diviene in maniera ripetitiva poi il traino su cui si appoggia la serie o anche il character design di alcune creature aliene - e che sono anche quelli meno memorabili nelle storie di Piccoli Brividi

Per le questioni sovraesposte e grazie a un ritmo narrativo comunque ben giostrato, la serie risulta godibile nonostante il crollo che avviene a partire dalla mid-season. Ultima menzione interessante non per le atmosfere affini a Stine, come già detto, ma in generale a quegli spettrali anni Novanta, è l’utilizzo nell’episodio 6 del film-footage - che fa molto The Blair Witch Project (1999) - per quasi l’intera durata dell’episodio regalando alla serie il respiro verso quelle atmosfere di un periodo, per me, mitico.

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