Vita da Carlo 3 – Verdone all’Ariston
Come si suol dire non c’è due senza tre e infatti approda alla terza stagione anche Vita da Carlo, serie nata quasi per scommessa come una sorta di fanservice, dopo l’ultima (ad oggi) travagliata e sfortunata opera cinematografica di Verdone, Si vive una volta sola e bisogna ammettere che la scommessa è vinta, visti gli ascolti registrati.
Il continuo intrecciarsi tra pubblico e privato è proprio l’idea più interessante che sta alla base dell’intera serie (la cui distribuzione è passata da Prime Video a Paramount+), in quanto Verdone cerca di restituire un’immagine nuova di sé stesso, andando oltre l’interpretazione di maschere ben collaudate e mettendosi in scena attraverso una sorta di autofiction sospesa tra momenti sit-com e squarci da reality, dove tic e cliché caratteriali dei suoi tipici personaggi vengono perfettamente metabolizzati dall’autore/interprete. Se la prima stagione era una titubante fase di passaggio dal cinema al prodotto seriale, quasi un viaggio a ritroso e autoparodico nella variopinta e grottesca galleria di figure verdoniane, la seconda invece si concentra prevalentemente su un processo di autodecostruzione, una riflessione sulla fine di uno stile e sull’ibridazione tra media differenti.
Con Vita da Carlo 3, Verdone sembra voler in parte sospendere questa sorta di autoanalisi, allargando lo sguardo su quello che gravita attorno a lui e alle istituzioni che lo coinvolgono professionalmente. La trovata di partenza di venire chiamato a rivestire l’incarico di direttore artistico del Festival di Sanremo è una buona intuizione, perché da un lato rinsalda la figura di Verdone a una delle sue grandi passioni, la musica e dall’altro permette all’autore e interprete di comporre una satira sul backstage e l’organizzazione del Festival della Canzone Italiana, che per estensione diventa una critica ironica, ma mai impietosa, nei confronti della produzione televisiva contemporanea, amplificata dalle piattaforme social.
Carlo Verdone ha spesso inserito la propria musicofilia all’interno della sua lunga carriera cinematografica, basterebbe citare Borotalco con Eleonora Giorgi fan sfegatata di Lucio Dalla (musiche di Dalla e degli Stadio), l’incontro con Richard Benson per parlare di Jimi Hendrix in Maledetto il giorno che t’ho incontrato, Sono pazzo di Iris Blond in cui interpreta un cantante e musicista da crociera che accompagna al piano Andréa Ferréol in una versione di Ne me quitte pas di Jacques Brel.
L’affezione nostalgica di Verdone per il rock e per il cantautorato anni Settanta, viene restituita con autoironia e messa a confronto con l’odierno panorama musicale italiano, in cui egli fatica a ritrovare il tempo perduto, un po’ come il suo mentore Alberto Sordi quando da regista adottava uno sguardo morale (o meglio moralistico) nei confronti delle nuove generazioni. Carlo si smarrisce nel marasma della società dello spettacolo contemporaneo, nei suoi vizi di forma, nei suoi compromessi da teatrino politico, nella sua estetica da circo woke, ma l’indice alzato del comico verso quel sistema, troppo spesso si abbassa per caderne sconfitto. La satira che cerca di attentare al sistema festivaliero e televisivo italiano, alterna un po’ la testa e un po’ la pancia, senza essere mai programmaticamente sgradevole come lo era Mutande pazze di Roberto D’Agostino (che qui appare nel ruolo di sé stesso e di talent scout) e nemmeno sciattamente barzellettistica come lo scult Gole ruggenti di Pier Francesco Pingitore (nonostante alcuni gag fisiologici come quello dei tramezzini scaduti che fanno correre tutti in bagno). Verdone resta sospeso a metà fra i suoi tipici exploit comici e un magma televisivo e citazionista in cui non manca nemmeno la cinefilia spicciola (la solita parodia della doccia di Psycho), annunciando persino la quarta stagione che pare veda nel cast anche il Pierino nazionale, Alvaro Vitali.